L'Editoriale del Direttore

 

Come avere fiducia nella politica?Scritto da:Nicola Giordano

07.04.2012 11:07

Dopo anni di ideali e speranze sembra arrivare il crollo.

Molti anni fa,molti di noi erano come innamorati.Erano estasiati all'idea che stesse per iniziare una nuova epoca.Un'era in cui davvero si potesse dar vita al sogno liberale,spazzando via gli odi e le invidie tipiche della Prima Republica.Sull'onda emotiva di Tangentopoli nacquero dal nulla vere e proprie oasi politiche.Politci nuovi,non di professione.In cui il Cavaliere Silvio Berlusconi,che creò in pochi mesi un colosso elettorale che ancora oggi è il primo partito d'Italia,ne era l'emblema indiscusso,vero faro di speranza per un paese che finalmente usciva dall'incubo post-comunista.

La vicenda politica di Berlusconi non è ancora finita,ma negli anni di governo non si è completamente concretizzata nei suoi obiettivi.Beghe interne,personalismi congeniti e la presenza sempre pressante delle indagini giudiziari,spesso basate su teoremi o sul mero gossip,hanno creato veri iceberg lungo il cammino e reso quasi impossibile applicare gli schemi di programma,fino alla crisi economica,che ha portato in auge la figura dei tecnici politici,nominati come salvatore del paese a suon di tasse e riforme con l'accetta.

Ora tutte quelle persone sognatrici,che speravano nel sogno riformatore sono vinti dall'amarezza,criticano questo governo di professori che fa altro che vessarli e spremerli fiscalmente per ripianare i buchi della politica.L'amarezza spesso si muta in disagio esistenziale,se non addirittura in umiliante impotenza.La cosiddetta Seconda Repubblica sembra essere in una fase terminale,un collasso inesorabile.Il guaio peggiore è che sembra davvero non esserci un rinnovamento delle personalità politiche,nonostante tale collasso.Il vero pregio che questi anni ci portano in dote è la nascita di un sistema bipolare che almeno in modo più o meno chiaro ha assicutato un minimo di alternanza governativa.

Sembra ora essere arrivato l'atto finale.La politica è stata messa da parte o si è fatta furbescamente mettere da parte da un governo di tecnici,un governo emergenziale che somiglia sempre più a un organo di consociativismo,che spesso per sopravvivere in Parlamento è costretto a snaturarsi accettando minacce e modifiche alle proprie idee e alle proprie riforme minimante innovative.Insomma un quadro degno della Prima Repubblica.La Magistratura.una volta dimessosi Berlusconi,sembra finalmente concentrarsi su indagi e reati seri.Finalmente si sta tentando di aprire quel vaso di Pandora rappresentato dal virus della corruzione,che è una vera piaga soprattutto a livello regionale.Davvero impressionante è non solo la melma corruttiva tra politica e imprenditoria,vedi i casi Penati e Emiliano,ma anche il paradosso dei rimborsi elettorali,originariamente abrogati dalla tornata referendaria e rientrati successivamente in modo mimetizzato.

Utilizzare i soldi pubblici per scopi personali o per creare fondi per svariate attività,come nel caso dell'Api di Rutelli e della Lega Nord, non fa altro che alimentare l'antipolitica e insultare tutti coloro che avevano creduto nel vento riformatore post-Tangentopoli.Le ipotesi future sono davvero incerte.Forse i tecnici riuscirano davvero a resistere fino al 2013,portando così a compimento il loro mandato,chissà con quali reali benefici per il Paese.Ma dopo cosa ci attende politicamente?Un pò di sconforto riaffiora deciso.Pdl e Pd vengono spesso scossi da temporali al loro interno,dove personaggi passati non rinunciano a staccarsi dalle poltrone o a rientrare nel giro dopo umilianri sconfitte,il caso di Veltroni è lampante;la Lega è in crisi dopo lo scandolo dei rimborsi e la leadership di Maroni è certa sulla carta ma non sul territorio;il Terzo Polo si barcamena alla meno peggio tra un appoggio a destra e uno a sinistra,ma il suo peso elettorale sembra ancora poco consistente.

L'unica cosa che aumenta e divampa è l'allontanamento dagli ideali politici e l'odio sviscerato verso la Casta.Negli anni settanta si respirava un 'aria simile,molto più ideologica e violenta rispetto ad ora,ma tragicamente simile nei principi.Anche oggi si assiste ad un vero crollo della democrazia,quella intesa in termini liberali,non degenerata,un crollo che non può assestarsi se non viene ricreato il legame fiduciario fra cittadini e Palazzo della politica.Tale legame è davvero complicato da ricreare.Ma si potrebbe iniziare con il cambiare la legge su i rimborsi elettorali ai partiti.Vincolandoli ad un obbligo di rendiconto in modo da coprire solo le reali spese sostenute dai politici.Si potrebbe imporre ai suddetti partiti di restituire le somme eccedenti i precedenti rimborsi e obbligarli a non compiere attività o affari che non hanno nulla da spartire con la vera politica ma solo con il mondo affaristico.Questi si che sarebbero passi decisivi,utili a ricostruire il rapporto con i cittadini.Sarebbero delle scelte basate sulla logica e sull'onestà.

Onestà e logica,due termini che in questa epoca politica sembrano essere davvero sconosciuti.

 

Autore:Nicola Giordano

 

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Italia e Germania le due Gemelle Diverse.Scritto da:Nicola Giordano

30.03.2012 10:23

Due popoli,due nazioni ma una comune radice profonda.

Si evince chiaramente dallo stupendo dipinto del tedesco Overbeck che le due nazioni venivano rappresentate,Italia e Germania,come due sorelle,gemelle,ma profondamente diverse,nell'aspetto e negli atteggiamenti.Una classica allegoria che nascondeva lampanti verità.Soprattutto l'ammirazione della Germania che stringe le mani dell'Italia in simbolo di amicizia e gratitudine per l'eredità culturale e letteraria.

Come lo stesso nuovo governatore della Banca Europea ,l'italianissimo Mario Draghi,ha più volte sottolineato riguardo alla nostra economia,servirebbe ripassare per bene la cosiddetta lezione tedesca.

In realtà però,gli elementi di comunanza tra l'economia italiana e quella tedesca sono davvero notevoli:una base nel settore manufatturiero molto competitiva e specializzata,una ossaturadi piccole e medie imprese di vocazione familiare,una forte tendenza alle esportazione.Pure i punti di contatto tra i due paesi sono numerosi,gli scambi di prodotti tra Italia e Germania è di 102 miliardi di euro,molto al di sopra di quello base esistente fra Italia e Francia o Inghilterra.Lo stato di salute economica della Germania è così importante per noi che un raffreddore della prima può trasformarsi in una brutta influenza per l'economia italiana e visto che nel 2012 in Germania si annuncia na piccola recessione,i segnali sono poco incoraggianti.

 

Una delle più grandi banche italiane,la Unicredit, è anche tedesca e numerose sono le aziende italiche prsenti in Germania dal 1950 prima fra tutti la Ferrero e ci stanno anche bene.Il rapporto italo-tedesco quindi è davvero notevole e forte senza dover per questo scomodare la passione di Goethe per il bel paese.Una presenza in Italia del popolo teutonico era costante,a partire dagli anni sessanta sulla riviera adriatica e negli ultimi anni nelle località più radical-chic di Toscana e Umbria.Secondo il vecchio detto,i tedeschi amerebbero l'Italia e gli italiani,ma non ne hanno una grossa stima.Al contrario gli italiani sembrano stimare molto i tedeschi ma non amarli affatto,sembra quasi che mentre gli inglesi misurano il loro rapporto con la Germania sullabase degli esiti della II Guerra Mondiale,noi italiani li misuriamo sulla base della mitologica partita del Mondiale Italia-Germania 4 -3,tutto sembra davvero navigare sul filo della commedia.

Anche gli Stati Uniti hanno forti legami con la Germania,molto più di noi a livello economico.Storicamente nel 1683 un centinaio di Quaccheri partirono dalla Renania e presso Filadelfia il quartiere di GermanTown,ancora esistente.Non si dimentichi che il gruppo etnico di americani di origine tedesca sono la maggioranza della popolazione.Ma le somiglianza sono soprattutto etiche:grande culto del lavoro,della meritocrazia e della solida istruzione sono i legami davvero stretti tra questi due lontani popoli.Tornando a noi.

Purtroppo la crisi della zona euro e la situazione precaria del debito italiano sembra aver rinvigorito questi vecchi stereotipi.La Germania e la sua Cancelliera in primis sembrano avere un timore enorme e malcelato del nostro debito pubblico,un timore che è aumentato dalla nascita della moneta unica e che i tedeschi non hanno alcuna intenzione di doversi accollare nei prossimi anni.Negli anni in cui venne ideato l'euro memorabili restano le critiche e le paternali dell'economista tedesco Tietmeyer sulla situazione debitoria dell'Italia.Mario Monti d'altronde sembra essersi adeguato e coltiva in modo forte i rapporti con il Governo tedesco,non disdegnando di strizzare l'occhio allo stesso popolo di Germania.

In una recente intervista all Bild,il professore parlando di se sembra quasi aver dipinto la figura del tedesco ideale,tutto l ' opposto della figura edonistica del Cavaliere:avrebbe detto "parlo poco,vesto in modo serio e quasi banale,non sono rumoroso e non  ho quasi nessun vizio"  .D'altronde la stessa Cancelliera tedesca è vista da noi italiani in modo particolare quasi come una bambinaia severa che come una giusta governante.Meglio per noi iniziare a cambiare idea e a conviverci in modo accettabile,perchè sembra che ora le regole del gioco,come lo stesso Sarkozy ha saggiato sulla sua pelle mesi fa,sembra farle lei per davvero.

 

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Libertà o Democrazia.Cosa scegliamo?Scritto da.Nicola Giordano

14.03.2012 11:01

Due concetti così simili ma così diversi.

Durante gli ultimi lustri di vita politica negli Stati Uniti e in molti paesi d'Occidente il concetto di libertà sembra essere passato in secondo piano rispetto a quello di democrazia. La libertà richiede che i membri della collettività si governano da soli, essendo cittadini sovrani, mentre la democrazia è un sistema,una tecnica attraverso la quale le decisioni vengo realizzate all’interno del gruppo. In una collettività giusta la libertà è superiore; l'essenza stessa della legge sta nell’assicurare la libertà a tutti, garantire che i diritti degli individui alla loro vita, libertà e ricerca della felicità (Costituzione Americana), siano tutelati da qualsivoglia fattore umano intenzionato a lederli o ad ostacolarli.

La democrazia tuttalpiù non è che un prodotto della libertà. Dato che si presuppone che siamo tutti liberi di governarci da soli, quando qualche tema di politica pubblica investe la cittadinanza, tutti sono intitolati a partecipare. In una società libera, il governo democratico si basa sul diritto di ognuno di intraprendere tutte le azioni necessarie ad influenzare la politica pubblica. Poiché la libertà è un valore supremo, lo scopo della politica pubblica e, perciò, della democrazia, in una società giusta è strettamente limitato. La ragione sta nel fatto che uomini e donne liberi non possono subire intrusioni, anche se la maggioranza dei loro simili decide il contrario. Se uno è una persona libera, vale a dire che si autogoverna, allora anche la maggioranza dei suoi simili non ha l’autorità per imporsi sul suo autogoverno senza il suo consenso. Non può essere altrimenti, a meno che non ci sia un accordo precedente sancito da tutti per accettare questo processo. Il consenso dei governati consiste in questo e questo è ciò a cui si riferiscomo le moderne  Costituzioni quando dicono che il governo deriva i suoi giusti poteri dal consenso dei governati.

In una società giusta nessuno perde la propria facoltà di autogoverno se non decide di cederla volontariamente. Nessuno può compiere su di te una qualunque operazione, per quanto saggia e competente, senza il tuo consenso, e lo stesso vale, in un sistema giusto, quando si impongono doveri e obblighi alle persone. Ci vuole il loro consenso. Se non c’è, non gli si possono impartire ordini. Sarebbe servaggio involontario!

L’unica eccezione consiste nelle leggi che proteggono i diritti di tutti. Ad una persona si può ovviamente ordinare di non uccidere, rapinare, violentare, derubare o assaltare qualcuno anche se essa rifiuta di dare il proprio consenso. E quando il governo si occupa di proteggere i diritti individuali, può ordinare a qualcuno di non compiere quelle azioni. Ma questo, in effetti, non significa fare un’intrusione su qualcuno, bensì proteggere chiunque dalle intrusioni.

E’ con questi presupposti che nasce l’idea del governo limitato: il governo può agire solo per proteggere dei diritti, per imporre leggi che agiscono a quello scopo, niente di più. Di nuovo, come riportano gli scritti di Rousseau, è per garantire i nostri diritti che i governi vengono istituiti, non per altro. Ovviamente, questa idea del governo limitato non rientra nelle considerazioni di politica pubblica degli Stati Uniti o degli altri paesi.

Ma non c’è dubbio che se la libertà è stata quasi dimenticata come ideale di un giusto governo, sia in America che altrove, la democrazia resta una sorta di ideale operativo. In questo modo la libertà è stata ridotta, enormemente, all’ambito di avere il diritto di partecipare alle decisioni pubbliche. Se l’idea originale era quella che siamo liberi in ogni ambito e la democrazia riguarda per lo più chi amministrerà un sistema di leggi mirate a proteggere la nostra libertà, ora l’idea è che la democrazia riguarda ogni aspetto della nostra vita e l’unica libertà che ci è rimasta è quella di partecipare al processo decisionale su ciò che è considerato una questione “pubblica”. Questo è reso evidente dal modo in cui le migliori università statunitensi considerano la pubblica amministrazione come un argomento che riguarda in primo luogo il funzionamento della democrazia. Il fatto è che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, anche se il tema di fondo dovrebbe essere la messa in salvo della libertà individuale, gli accademici che scrivono e insegnano pubblica amministrazione sono quasi tutti concentrati sulla democrazia, non sulla libertà.

Certo, questo è un pezzo di genuina libertà che molte persone nel mondo non hanno mai conosciuto, e quindi per loro è certamente importante. Ma sicuramente non è a questo che la Costituzione si riferisce quando dice che siamo tutti uguali nell’avere diritti inalienabili alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità.

La Costituzione parla di un ampio spettro di libertà individuali, mentre la miglior scuola di pubblica amministrazione insegna, quantomeno implicitamente, che l’unica libertà di una qualche importanza è la libertà di partecipare alla determinazione delle politiche pubbliche. Questo però spesso non accade. Una volta che la democrazia viene considerata il valore pubblico supremo, e la libertà individuale viene messa da una parte eccetto che per il partecipare al processo democratico, il campo d’azione del governo non è più limitato né in principio né in pratica.

E questo rischia di diventare una minaccia grave alla democrazia stessa. Perché quando la democrazia schiaccia la libertà, la democrazia distrugge se stessa – la legge potrebbe permettere la distruzione scelta democraticamente della democrazia stessa! Ed è proprio ciò che avvenne nella Repubblica di Weimar, dove un’elezione democratica mise al potere Hitler e distrusse la democrazia. E oggi basta guardare quello che sta avvenendo in Medio Oriente!

Se vi siete chiesti perché nei dibattiti televisivi o negli editoriali dei quotidiani non si parla di libertà dell’uomo ma ci si occupa, e molto, di democrazia, ecco la ragione: i più importanti istituti educativi non si interessano affatto della libertà e hanno scelto una versione molto limitata di essa, vale a dire la democrazia, come loro interesse primario. Una volta che ciò sarà acquisito, la libertà individuale diventa vulnerabile.

Per la verità, la democrazia può essere totalitaria quanto la dittatura. Solo che sembra meno ingiusta, perché lascia intatto un'unica e piccola forma di libertà, quella di votare.

 

Autore:Nicola Giordano

 

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La Patologia Politica.Scritto da:Nicola Giordano

07.03.2012 09:24

Come un virus,la Politica sta contagiando i tecnici.

Sembra strano ma è così.Pochi mesi di full-immersion nel mondo politico e già i tecnici del Governo,Monti in primis,sembrano essere stati contagiati dal morbo patologico che affligge la Politica italiana da ventenni,e cioè,dopo poche promesse e speranze,sbarazzarsi del fardello inerente la volontà popolare e concentrarsi fin da subito sulla propria carriera politica e sulle scelte di opportunità per scalare le poltrone più ambite.

Monti opterà per la carica di Presidente della Repubblica o deciderà di ricollocarsi al vertice del Governo  per proseguire nel pilotare l'esecutivo anche per i prossimi cinque anni dal 2013? Ed è attraverso tale decisione di Monti chi inizierà a giocarsi la chance di gareggiare per impossessarsi dell'incarico scartato dal presente Presidente del Consiglio? La lotta senza quartiere sarà per il Quirinale o per per Palazzo Chigi? L’attenzione delle compagini politiche è quasi fossilizzata su tali questioni future.

Se il Professor Monti andrà al Colle chi competerà nella gara per la Presidenza del Consiglio? Pierluigi Bersani? Pierferdinando Casini? Angelino Alfano? E se, viceversa, Monti sceglierà di autoproclamarsi nel ruolo di “ grande salvatore” posticipando la propria salita al Colle di sette anni (anche per lui e per i politici l’allungamento della vita media consente di allungare i progetto di vita e di attività) , chi e come potrà partecipare alla corsa per la successione a Giorgio Napolitano ? L’aspirante Casini? L’irriducibile D’Alema? Od il redivivo Berlusconi riconsegnato all’onor del mondo e trasformato da sciupafemmene a padre della patria da un anno e mezzo di sostegno convinto al governo del Santo Loden? Nessuno è in grado, oggi, di prevedere con un minimo di attendibilità cosa potrà riservare il prossimo futuro.

Però, senza avventurarsi in profezie prive di senso, qualche considerazione va fatta sul significato profondo ed inquietante espresso dell’attenzione che l’intera classe dirigente concentra su questi oscuri interrogativi. La prima è che, proprio nel momento in cui apparentemente i partiti raggiungono il punto culmine del proprio declino, la loro visione deviata della politica torna a dominare in maniera incontrastata la vita pubblica del paese.
Monti ed il suo governo tecnico appaiono fagocitati e metabolizzati da questa visione e da questa logica da Prima Repubblica. Non sono più i soggetti esterni ed innovatori della attività politica ma ne sono stati talmente conquistati e fatti propri da esserne diventati addirittura gli elementi centrali.

La seconda considerazione, ancora più inquietante, è che l’attenzione si concentra sui futuri inquilini del Quirinale e di palazzo Chigi dando per scontato che la crisi economica si sia ormai esaurita, che l’emergenza sia finalmente terminata ed il risanamento completato. Ma non è così.

Lo spread che scende non è il segnale che la guerra è finita e che la vittoria è stata conseguita. La bufera è in corso. La disoccupazione cresce e la produzione scende. L’euro non è affatto salvo , come dimostrano le tensioni che scoppiano a ritmo sempre più incalzanti nei paesi europei.

E soprattutto, il governo tecnico incaricato dal Presidente della Repubblica e dai partiti di fare il “ lavoro sporco” del risanamento del paese segna il passo sul terreno della riforma del lavoro indispensabile per la riuscita dell’operazione e non sembra avere ancora capito che non basterà aver corretto le pensioni e l’art.
18 per rimettere l’Italia in carreggiata. Bisognerà dirottare sulla produzione e sui consumi quella gigantesca parte della spesa pubblica che al momento viene sperperata per tenere in piedi lo stato burocratico-assistenziale. Non c’è crescita in sostanza, se non si scarica la zavorra.

E non si scarica la zavorra senza un progetto complessivo di semplificazione e di riduzione di un apparato statale gonfiato a dismisura nel corso di decenni e senza aver convinto la maggioranza del paese che il futuro non passa per le alchimie ed i giochi dei politici di professione o di complemento ma dalla consapevolezza che solo un grande ed effettivo cambiamento farà terminare l’emergenza.

 

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Libere Professioni:non cambia proprio nulla.Scritto da:Nicola Giordano

 

02.03.2012 10:23

La paura blocca il Governo.Tutto rimane come era.

 
Si è tenuta ieri, la giornata di protesta di tutte le professioni che, un tempo, avremmo definito “liberali”. E’ stata indetta quando l'intervento governativo sulle liberalizzazioni si delineava come un morso sanguinolento contro le tante esclusive e privative di cui ancora godono, le innumerevoli regole  che impediscono l’ingresso di nuove leve di professionisti e iper tutelano categorie di atti e fasce di servizio e prodotto che esse sole possono offrire.
 
Ma la giornata di ieri aveva un senso molto diverso, rispetto alla protesta iniziale di quando è stata convocata.E' stata la giornata della vittoria. Perché in parlamento le forze politiche che sostengono il governo hanno innestato la retromarcia rispetto a norme che già di fatto erano assai più modeste di quelle attese. In buona sostanza, sono state accolte il più delle richieste avanzate da avvocati, ingegneri, architetti e via proseguendo. Di conseguenza, come su moltissimi altri capitoli di un decreto troppo enfaticamente battezzato cresci-Italia, le buone intenzioni si sono perse per strada. E resta praticamente solo la riuscitissima operazione mediatica, sulla scena italiana e sui quella europea mondiale, che comunque all’immagine dell’Italia male non fa. Ma rende assolutamente lunari le stime di crescita aggiuntiva di un punto di Pil ogni anno per dieci anni, che campeggiavano nella prima pagina della relazione di accompagnamento del decreto.
 
E’ caduto l’obbligo di preventivo al cliente. La norma che prevedeva l’abolizione delle tariffe minime viene aggirata dal fatto – vedi decisione del Tribunale di Roma, proprio ieri – di tenerle comunque saldamente in esistenza per il contenzioso e le decisioni giudiziali. Persino la norma  che prevedeva il tirocinio pagato con incentivi di Stato mentre si frequenta ancora ancora l’Università perde l’obbligo retributivo della versione originale. E di conseguenza  moltissimi giovani continueranno a svolgere pratica di studio pagati meno delle segretarie, e senza alcuna certezza per anni di poter un giorno diventare associati. La possibilità di studi professionali con ingresso di società di capitali è stata fortemente ristretta, in nome del no ai grandi studi iperspecializzati, innervati in forme giuridiche e dotazioni patrimoniali  più coerenti all’odierno mercato.
Criticare, come qui si sta facendo, espone a controcritiche durissime da parte di chi esercita la rappresentanza di ordini e professioni. Lo so bene da anni.
 
E da liberista impenitente abbiamo imparato a distinguere la qualità e l’apertura di chi esercita la rappresentanza. Perché c’è chi negli anni si è molto più aperto a queste innovazioni, come i commercialisti, e chi invece nel mondo forense continua a ripetere che non c’è barriera alla concorrenza per il solo fatto di avere un esercito di 250 mila avvocati: metà dei quali o quasi concentrati ad alimentare per campare l’iperlitigiosità che dell’Italia è problema, e con altre decine di migliaia in fila a svolgere il loro stesso mestiere in condizioni di sfruttamento molte volte assolutamente indegne.
 
Tuttavia una cosa è chiara. Le critiche alla chiusura che ancora una volta ha finito per prevalere non significa affatto disconoscere il patrimonio di impegno, dedizione e professionalità che queste figure essenziali rappresentano nella nostra Italia. Il punto è tutt’altro. Pensiamo per un secondo ai notai. Quando nell’ordinamento italiano fu loro affidato il compito di una validazione di legalità ex ante, alla stesura stessa di molti atti e nei confronti dei loro stipulanti, reciprocamente tra loro e nei confronti dello Stato, eravamo nell’Italia pre repubblicana, una nazione ancora agro-pastorale. Ora non ha più senso, tenere in vigore la stessa lista di esclusive affidata loro decenni fa: moltissimi atti di esclusiva pertinenza notarile possono essere aperti, a seconda delle diverse tipologie, alla concorrenza di avvocati, commercialisti e persino geometri e periti tecnici.
 
Oppure, pensiamo ai farmacisti. Anche nel loro caso, l’errore è quello di tenere come esclusiva delle farmacie l’attuale classificazione dei farmaci loro riservati. A cominciare da quelli di fascia C. Invece il governo ha deciso di tenere notai e farmacisti esattamente al riparo delle loro privative, come prima, decidendo solo di aumentare il loro numero.
Ma aumentare l’offerta di monopolisti pianificata centralmente dallo Stato non ha nulla a che vedere con una liberalizzazione. Estende solo il numero dei privilegiati.
 
Le povere mosche bianche liberiste, che da tempo elaborano  quel rapporto annuale sulla perdurante bassa concorrenza nei più diversi settori dell’economia italiana con il quale moltissimi media hanno illustrato nei primi giorni la necessità del decreto annunciato da Monti, continueranno a dire e ripetere che occorre tutt’altra chiarezza e coraggio, nel recuperare i tanti ritardi accumulati. Anche nel mondo delle professioni. Senza mancare di rispetto a nessuna di esse. Con la piena consapevolezza che un Paese avanzato ha bisogno delle loro preparazione. E che in molti Paesi europei le cose vanno in questa materia come in Italia e peggio che in Italia.
 
Ma a l'ispirazione non è il desiderio di un ipotetico darwinismo professionale, come vorrebbe la replica che viene rivolta. Al contrario, è proprio per gli ostacoli alla concorrenza oggi persistenti, che alla fine i figli degli avvocati sono avvantaggiati a fare gli avocati, e via proseguendo per ogni libera professione.
Il professional day di ieri è la rivincita del vecchio adagio italiano che non si cambia senza codecisione, e che la codecisione guarda all’indietro invece che in avanti. E’ la conferma che se il governo è stato troppo prudente, io partiti restano troppo porosi a interessi elettorali conservativi  (anche qui distinguendo, c’è stato chi in Parlamento ha presentato emendamenti migliorativi, dalle banche all’energia, assai meno sulle professioni).
 
Peccato, noi avremmo preferito una politica che dicesse a tutti: “dobbiamo riservare a ciascuno e a voi tutti la stessa giusta decisione con cui abbiamo imposto a centinaia di migliaia di italiani, da un giorno all’altro, di lavorare anni in più prima della pensione che avevano a portata di mano”. Invece, niente. Una Repubblica che continua a trattare alcuni da figli e altri da deboli figliocci, assomiglia purtroppo alla fattoria degli animali di George Orwell.
 

 

Nessuna speranza,il Csm è una vera corporazione.Scritto da:Nicola Giordano

20.02.2012 09:27

Il Capo dello Stato rimprovera e il Csm assolve.

Nel momento in cui il Presidente della Repubblica Napolitano ha enunciato al Consiglio Superiore della Magistratura un'invettiva in cui ha stigmatizzato le “eccessive esternazioni” di molti magistrati, il medesimo Csm ha definito “lecito” ma “inopportuno” il discorso fatto dal Pm di Palermo Ingroia al convegno del Partito dei Comunisti Italiani.
Questo significa che tra il Csm ed il Capo dello Stato (che poi è il presidente dello stesso Csm) c’è una frattura in essere? E che l'accusa senza sanzioni di alcun tipo nei confronti di Ingroia costituire la risposta implicita (ed ovviamente polemica) alla critica di Napolitano verso i magistrati che “esternano” eccessivamente come lo stesso Ingroia? Niente affatto.
Nessun componente del Consiglio Superiore della Magistratura pensa minimamente di mettersi in contrasto con il Presidente della Repubblica. E tutti sono perfettamente d’accordo sul richiamo di Napolitano ad una maggiore “sobrietà e compostezza” espositiva delle toghe. E solo che per loro le due questioni, quella del richiamo ai principi fatto dal Capo dello Stato e quella della valutazione concreta del comportamento di un magistrato, vanno poste su due piani distinti e separati.
Dove si applicano logiche completamente differenti. Su quello dei principi dove si colloca il Presidente della Repubblica vale la logica astratta dell’adesione formale ai grandi valori generali della Costituzione. Su quello della valutazione concreta dei comportamenti dei magistrati vale invece la logica corporativa che subordina costantemente i principi generali al diritto individuale del singolo magistrato.
Da un punto di vista formale, dunque, il Csm che “bacchetta” ma non punisce in alcun modo l’”esternatore” esorbitante Ingroia non si pone affatto in contrasto con Napolitano e la sua critica alle “esternazioni” eccessive. Anzi, sul piano formale condivide in pieno la valutazione del capo dello Stato.
Ma sul piano materiale, quando si tratta di valutare concretamente se un magistrato abbia ecceduto o meno in comportamenti destinati a creare dubbi sulla sua terzietà (e quindi sulla credibilità della stessa magistratura), il Csm considera sempre prevalente su qualsiasi principio generale il diritto di ogni singolo magistrato alla libertà d’opinione riconosciuta dalla Costituzione a tutti i cittadini.
Il Csm non compie alcuna forzatura nel comportarsi in questo modo. Segue, semmai, una prassi che si è consolidata nel corso dei decenni e che è diventata una sorta di riflesso pavloviano per chiunque si sia succeduto nell’organo di autocontrollo della magistratura italiana. Paradossalmente, però, questa circostanza non è un attenuante ma, al contrario, un aggravante.
Significa che la dissociazione tra piano formale e piano materiale non nasce da una qualche strumentalizzazione occasionale ma da una distorsione diventata ormai strutturale. Quella che porta il Csm a considerare che il magistrato ha gli stessi diritti dei normali cittadini ed a dimenticare che alla rivendicazione di questo diritti deve corrispondere, per chi amministra la giustizia, una maggiore responsabilità.
Perché, altrimenti, il diritto del cittadino magistrato diventa maggiore del diritto del cittadino normale trasformandosi in privilegio. Chi giudica in base al principio della “legge uguale per tutti” non può farlo se non applica il principio anche a se stesso!

 

Esegesi del Fondamentalismo Islamico.Scritto da:Nicola Giordano

05.02.2012 09:46

I caratteri e le peculiarità dell'anti-occidentalismo islamico.

Il fondamentalismo di matrice islamica è ormai da lustri motivo di dibattito sia all'interno dei quotidiani, sia presso le cattedre di specialisti in svariati settori. Ma quale è la natura del fondamentalismo, e nello specifico del fondamentalismo religioso?

Uno stuff di esperti con sede negli Stati Uniti nel 1988 ha dato alle stampe cinque saggi dal titolo Fundamentalism project, nei quali si evidenziano le peculiarità comuni di tali movimenti. Tra di esse, la preoccupazione per la perdita di importanza della religione nella sfera pubblica; il rifiuto della modernità e, al contempo, l´uso di quanto in essa può essere utile; la selezione di particolari aspetti della tradizione per riadattarli ai propri scopi; la presenza di un "nemico" (dittatori, élites occidentalizzate o correligionari tendenti al compromesso) e, talvolta, l´uso della violenza. Tali aspetti, presenti anche nei fondamentalismi di altre religioni, hanno spesso mostrato, in quello islamico, una chiara matrice anti-occidentale, tragicamente evidente nei numerosi attacchi terroristici compiuti contro obiettivi statunitensi, israeliani o europei.
 
È probabilmente questo il motivo per cui il fondamentalismo degli islamisti fa più paura di altri. Spesso, tuttavia, si dimentica che i fondamentalismi sono un prodotto della globalizzazione e della crisi identitaria che essa ha provocato. Le società che non riuscivano più ad affermare la propria identità a livello locale, lo hanno fatto "inventandone" un´altra su base globale. Se questo è vero per i fondamentalismi in generale, forse lo è di più per quello islamico. I Paesi musulmani, e quelli arabi in particolare, in cui il sentimento di appartenenza risulta forte, hanno mal sopportato più di altri la colonizzazione e l´islamismo ha fornito loro una sorta di "linguaggio per la resistenza", un linguaggio religioso per riaffermare la propria cultura molto più forte del nazionalismo laico. A questo si aggiunga che i movimenti fondamentalisti si sono sempre opposti alla corruzione spesso dilagante dei governi laici e da sempre compiono attività caritatevoli quali la gestione di scuole e ospedali in favore degli strati più poveri della società. È probabile che sia questo il motivo per cui spesso i partiti legati a tali movimenti vincono le elezioni dopo la caduta di regimi laici e filo-occidentali.
 
Partendo da questo e alla luce delle recenti elezioni in Egitto, vorremmo proporre alcuni spunti di riflessione in materia di fondamentalismo islamico. È ben noto che il partito dei Fratelli musulmani e quello dei salafiti hanno avuto la maggioranza dei voti. Entrambi i movimenti hanno le caratteristiche segnalate dal Fundamentalism project; più marcate nei salafiti, che vogliono reinstaurare la sharia e che non vedono di buon occhio né i diritti delle donne, né i copti, meno nei Fratelli musulmani, che sembrano comunque disposti a collaborare con i liberali, che hanno condannato l´attacco all´ambasciata israeliana e che hanno dichiarato che rispetteranno la pace tra l´Egitto e Israele, anche se occorre qualche modifica. Anche se questo stato di cose può preoccupare l´occidente, questi sono i partiti che la maggior parte degli egiziani ha democraticamente votato; e se in Egitto ci sarà un governo formato da quei partiti, è con quel governo che si dovranno avere rapporti.
 
La reazione negativa alla vittoria di Hamas nei territori palestinesi o di Hezbollah in Libano non ha certo contribuito a migliorare la situazione mediorientale, né a favorire le trattative di pace in Israele/Palestina. Se paragoniamo poi i partiti vincitori al vecchio regime, loro acerrimo nemico, o alla giunta militare attualmente al potere, viene da domandarsi chi sia più "fondamentalista". La politica repressiva e violenta di Mubarak, ben visto da Stati Uniti, Europa e Israele, è più che nota per essere ulteriormente commentata. Quanto al Consiglio supremo delle Forze armate, le sue credenziali non sembrano migliori. In un rapporto del 22 novembre scorso, Amnesty international ha segnalato, tra l´altro, che le donne arrestate per ordine della giunta militare sono state sottoposte a "test di verginità" che un generale ha giustificato dichiarando che non si trattava di donne "come le nostre figlie", ma di ragazze che avevano dormito nelle tende insieme a manifestanti maschi. Il significato di tali parole è evidente. E, come i salafiti, neppure l´attuale governo deve avere particolare simpatia per i copti, se negli scontri con le forze di sicurezza del 9 novembre sono rimasti uccisi 28 cristiani. Non sempre, dunque, il fondamentalismo deve assumere sfumature religiose.
 
Bisogna inoltre sottolineare che gli islamisti di oggi, diversamente da quelli degli anni ‘80 e ‘90 e da al Qaeda, intendono raggiungere i propri scopi, alcuni meno volentieri di altri, proprio attraverso una politica democratica; anche se forse intesa in modo leggermente diverso da come la intende l´occidente, e in cui la religione islamica avrà un peso maggiore di quanto altre religioni non lo abbiano in altri Paesi.
Il fondamentalismo, quello islamico, almeno, sembra sulla via del cambiamento. Come fa notare Adam Shatz sulla London review of books, "gli islamisti sono stati segnati dall´esperienza della repressione di Stato e dagli attacchi di al Qaeda contro altri fratelli musulmani". Benché non possano certo definirsi liberali, hanno capito che collaborando con i liberali hanno molto da guadagnare e che la umma, e la stessa fede, hanno più possibilità di sopravvivere con un governo democratico che non in uno Stato rigidamente islamico come quello iraniano. Se l´atteggiamento del fondamentalismo islamico sta cambiando, forse dovrebbe cambiare anche quello degli analisti che se ne occupano. Massimo Introvigne, profondo conoscitore della materia, ha osservato che l´islam è come una scatola ed è necessario aprirla per sapere che cosa c´è dentro. Parafrasando le sue parole, apriamo anche la scatola del fondamentalismo islamico e consideriamo senza pregiudizi ciò che contiene.

 

Le Mani in Tasca.Scritto da:Nicola Giordano

30.12.2011 09:01

Solo abbassando le tasse l'Italia si rimette in moto.

Riguardo la crescita economica, bisogna sottolineare che l'unica maniera per rilanciare l'Italia è legato ad una forte riduzione del prelievo fiscale, quindi esattamente l'opposto di ciò che sta teorizzando il governo Monti. Occorre anche, spero una volta per tutte, togliersi dalla testa che possa funzionare qualunque ricetta di stampo keynesiano, così come invocano molti esponenti di quella vasta componente politico-sindacal-burocratica che sostiene da sempre l'esigenza di utilizzare la spesa pubblica quale leva per far aumentare il Prodotto interno lordo.
Un sistema che non cresce da oltre dieci anni, zavorrato da un prelievo reale che supera ampiamente metà della ricchezza prodotta, non avrebbe altra strada che quella di abbassare le tasse. Tuttavia, data la preoccupante perdita di fiducia sui mercati finanziari, è da scartare recisamente la possibilità di ridurre le aliquote in deficit, onde evitare ulteriori aggravamenti del cosiddetto spread sui titoli di Stato.
Pertanto, l'unica chance che resta per riprendere la via della crescita consiste in un taglio corposo delle enormi uscite pubbliche, le quali oramai viaggiano sopra il cinquantaquattro per cento della ricchezza nazionale. Sotto questo profilo, fino ad ora l'esecutivo dei professoroni ha realizzato qualche risparmio concreto sul fronte previdenziale, sebbene si sia poi calato le braghe sull'indicizzazione di alcuni vitalizi non proprio da fame, la qual cosa avrebbe comunque comportato una minore spesa a regime di circa 2,5 miliardi all'anno.
Ma a parte il settore della previdenza, che comunque resta sempre sotto tiro da parte della sinistra e dei sindacati per cercare di ridurre ulteriormente i tagli imposti da Monti e dalla Fornero, per il resto il molto della spesa pubblica, che oramai supera ampiamente gli ottocentomiliardi all'anno, non è stato minimamente intaccato dai cervelloni che occupano la stanza dei bottoni.
A tale proposito, quasi come un sinistro refrain, anche tra le fila di una compagine di governo che doveva rivoluzionare il modo di amministrare l'Italia cominciano a circolare tutta una serie di voci e di proposte basate, al pari di ciò che per decenni è avvenuto con gli esecutivi "politici", su tagli di spesa a dir poco ridicoli, per non dire altro.
In particolare, tra i tanti fantasiosi escamotage in discussione, vi sarebbe l'accorpamento in un unico edificio delle molte agenzie di riscossione tributaria operanti in un medesimo territorio e, udite udite, l'affidamento della manutenzione degli elicotteri di Stato ad un unico soggetto. Sembra incredibile, ma queste due notizie sono state riportate sotto Natale dai più importanti telegiornali italiani.
In sostanza, stando così le cose, ci troviamo di fronte all'ennesimo, sterile tentativo di tagliare la spesa pubblica, ossia la madre di tutti i problemi del Paese, risparmiando sulle "matite" e le "fotocopie", evitando ancora una volta di affrontare il vero nodo della questione.
Oramai pure i sassi sanno che nella maggior parte dei settori pubblici il grosso della spesa è assorbito dai cosiddetti trattamenti personali, ovvero stipendi ed emolumenti vari. Basti dire che nella scuola pubblica ad esempio, da sempre oggetto dei piagnistei di una sinistra e di un sindacato irresponsabili, oltre il novantasette per cento delle risorse se le pappa il personale impiegato.
Dunque pensare di ridurre le enormi uscite pubbliche toccando solamente ciò che serve per far funzionare la macchina, senza sfiorare l'enorme esercito di personaggi che vivono sostanzialmente di tasse, politici compresi, rappresenta l'ennesima presa per i fondelli nei confronti di quegli stremati ceti produttivi che da anni invocano una riduzione della pressione fiscale.
L'impressione che si cava da tutto ciò è che, professori bocconiani o meno, da noi il rigore della spesa pubblica fa sempre meno rima con popolarità. Un vezzo quest'ultimo che sembra aver molto contagiato anche gli integerrimi cervelloni al potere. Ma stando così le cose, non ci resta che fallire.

 

Il Presidenzialismo targato Napolitano.Scritto da:Nicola Giordano

 

22.12.2011 12:08

Napolitano oramai si muove da soggetto politico.

Durante la sua vita politica Giorgio Napolitano non è mai stato protagonista di slanci particolari. Non lo ha fatto da giovane, quando era iscritto nel Pci stalinista e togliattiano. E non lo ha fatto nella maturità quando, durante il periodo del passaggio del proprio partito dal comunismo rivoluzionario alla socialdemocrazia di tipo occidentale, ha sempre mantenuto una posizione guardinga e misurata caratterizzata dall'assenza di ogni tipo di eccesso politico.
Giuliano Ferrara sostiene che divenuto anziano, Presidente della Repubblica e giunto quasi alla fine del proprio mandato, Giorgio Napolitano abbia cambiato improvvisamente stile e con la formazione del governo di Mario Monti, abbia addirittura compiuto una forzatura costituzionale sospendendo la democrazia e dando vita ad un esecutivo privo della necessaria legittimità democratica.
In realtà, però anche se la polemica del direttore de “Il Foglio” è intellettualmente stimolante, non è esatto sostenere che Napolitano abbia scoperto il piacere ed il fascino delle forzature ed abbia modificato il proprio modo di fare politica fino ad arrivare a compiere uno strappo della Costituzione.
E la ragione non è che l'aver nominato in fretta e furia Mario Monti senatore a vita per poi investirlo del ruolo di capo di un governo in cui non figura neppure un solo eletto, rappresenti la normale prassi costituzionale. E' che la nostra Carta Costituzionale è diventata nel corso del tempo talmente elastica da consentire, a chi sappia navigare con abilità tra le sue pieghe interpretative, di passare tranquillamente dal sistema bipolare rigido al sistema parlamentare proporzionale tradizionale senza compiere strappi di sorta.
Il Presidente della Repubblica, dunque, ha formalmente ragione quando difende la piena legittimità del proprio operato e la formazione del “governo del Presidente”. Ed è solo un esercizio intellettuale (che però è una perla rara in una epoca in cui domina l'assenza di analisi intellettuale ed il pensiero unico degli sciocchi) accusare il Capo dello Stato di “democrazia sospesa” quando, invece, si dovrebbe parlare di riesumazione frettolosa della democrazia parlamentare della Prima Repubblica.
A Napolitano, semmai, va mossa una diversa contestazione. Che è quella di aver scelto, sia pure in maniera formalmente corretta e con il suo tradizionale stile prudente e felpato, di uscire ufficialmente dalla terzietà super partes del ruolo di Presidente della Repubblica e di diventare una della parti in campo.
La difesa, per la verità un po' stizzita, del “governo del Presidente” ha ridotto il ruolo di Monti a semplice interprete della volontà del Quirinale ed ha trasformato il Quirinale stesso in un soggetto politico che opera, magari con maggiore autorevolezza, ma sullo stesso terreno su cui operano le forze politiche tradizionali.
Il fenomeno può essere interpretato in chiave positiva. La discesa in campo in prima persona di Napolitano in difesa ed a sostegno di Monti assicura al governo quella forza e quella autorevolezza in più che possono risultare decisive nella fase dell'emergenza della lotta alla crisi economica nazionale ed internazionale.
Ma non è priva di controindicazioni. Che non sono solo quelle derivanti dalla sensazione che il massimo rappresentante delle istituzioni abbia compiuto una qualche forzatura delle istituzioni stesse. Ma sono soprattutto quelle che nascono dalla constatazione della sostanziale identificazione della Presidenza della Repubblica con la Presidenza del Consiglio.
Se Monti riuscirà nell'impresa di realizzare le riforme e traghettare il paese fuori dalla crisi il suo successo sarà quello di Giorgio Napolitano. Ma se Monti fallirà nell'impresa, il fallimento sarà anche e soprattutto del Capo dello Stato. Il ché fa sicuramente parte del gioco.
Ma di un gioco molto pericoloso. Quello in cui il paese rischia di trovarsi privo dell'unico punto di riferimento super partes in caso di crisi irrisolta.

 

Rinunciare alla sovranità.Giusto o sbagliato?Scritto da:Nicola Giordano

 

13.12.2011 09:47

Essere in Europa.Il gioco vale la candela?

L'elemento certo è che non stiamo con l'Inghilterra. Perché Cameron ha evidenziato che la Gran Bretagna non rinuncerà mai alla propria piena ed integrale sovranità nazionale. Ed anche se l'Italia volesse schierarsi dalla parte della sovranità nazionale inglese, sarebbero gli inglesi a non volerci a loro fianco per non avere a che fare con dei fastidiosi intrusi.
Ed allora a chi guardare? Alla Francia o alla Germania? Con il Presidente Sarkozy che pretende di riscrivere le regole dell'Europa in posizione paritaria con la Germania pur avendo alle spalle un paese che vale e pesa la metà di quello della Cancelliera Merkel? Oppure stiamo dalla parte della Merkel che, se per un verso non vuole giustamente sopportare l'invadenza molesta della Francia e la pretesa degli altri paesi europei di scaricare i propri debiti sulla Germania, per l'altro pretende di imporre a tutto il Vecchio Continente le regole dettate da Berlino in nome dell'eterno principio che il popolo tedesco deve essere comunque “uber alles”? E se non siamo né con Cameron, né con Sarkozy, né con la Merkel, con chi stiamo e quale linea sosteniamo per trovare una soluzione alla crisi dell'euro e dell'Unione Europea? Il mistero è fitto.
Perché fino ad ora sappiamo solo che l'Italia, ripetendo un mantra che la nostra classe politica recita ottusamente ed acriticamente da alcuni decenni a questa parte, sa solo ribadire che rinuncia alla propria sovranità ed al proprio interesse in nome della sovranità europea e dell'interesse della moneta unica.
Cioè sappiamo che fino ad ora i nostri governanti, sia quelli passati che quelli più recenti, hanno fatto professione di europeismo acritico e passivo volutamente generico. Un po' per non dover scegliere nettamente tra Francia e Germania, un po' per non essere costretti, attraverso una scelta europeista più definita e netta, a dover prendere una posizione chiara anche nei confronti del vero “terzo incomodo” tra le potenze europee, cioè gli Stati Uniti.
Questa pretesa di rimanere nel vago nascondendo l'incapacità di decidere sotto il velo di una sorta di ortodossia europeista ha comportato prezzi salati per gli italiani. Qualcuno ricorda la tassa per entrare nell'euro che venne imposta dal governo Prodi nel '96 con la giustificazione che attraverso quel sacrificio l'Italia sarebbe entrata nell'età dell'oro dei propri conti pubblici finalmente posti sotto la tutela di una sovranità sovranazionale seria come quella di Bruxelles? Oggi scopriamo improvvisamente che quei sacrifici non sono serviti a nulla.
Perché quell'europeismo acritico ed ottuso, che non ammetteva osservazioni e critiche di sorta, ha prodotto solo la formazione di una casta burocratica chiusa e costosa che, a sua volta, ha impedito che l'unione monetaria diventasse anche unione politica ed ha creato le condizioni per la grande crisi del momento.
Ma, soprattutto, ci rendiamo improvvisamente conto che è stato un clamoroso errore aver rinunciato ad una fetta consistente della propria sovranità nazionale senza aver elaborato una linea europeista autonoma e costruttiva, capace di condizionare al meglio e nella prospettiva dell'unità politica del vecchio Continente le opposte vocazioni e pretese egemoniche di Francia e Germania.
Si può rimediare, sia pure in extremis, a questo errore? Purtroppo no. Perché il governo in carica non è un governo politico ma è l'espressione di quella casta che è stata il prodotto negativo dell'europeismo passivo, acritico ed ottuso. Probabilmente un esecutivo espresso direttamente dalle forze politiche non potrebbe fare di meglio.
Perché nessuno fino ad ora ha chiarito che la rinuncia alla sovranità nazionale non può essere fatta per ragioni economiche ma solo per un superiore obbiettivo politico. Di sicuro, però, non è il governo Monti che può risolvere il problema.

 

Senza Euro,un male o un bene?Scritto da:Nicola Giordano

11.12.2011 09:46

Presagi foschi in caso di crollo della moneta unica.

Se accade che prevalga il pessimismo francese, ovvero che il rischio dell'esplosione dell'Europa “non sia mai stato così grande” e che, d’altra parte, Standard and Poor's, che lunedì ha minacciato di declassare il rating di 15 paesi della zona euro, abbia torto a non pensare a scenari di esplosione dell’unione monetaria.
Non sarebbe la prima volta che un’agenzia di rating sbaglia per eccesso di ottimismo. Cosa accadrebbe? Sulla scorta delle notizie che abbiamo empiricamente raccolto “dalla strada” e con l’aggiunta di un po’ di fantasia possiamo tratteggiare un disegno del Belpaese.

Per prima cosa è bene sapere che se finora i Paesi membri dell’Unione europea hanno traccheggiato, rimbalzandosi le responsabilità, dare vita a una moneta degli Stati del Nord potrebbe invece essere relativamente veloce: anche meno di una settimana, per intendersi. Le banche tedesche a quel punto chiuderebbero giusto il tempo necessario per adattare i conti alla nuova moneta che chiameremo per comodità Nordeuro.
A spanne questa divisa si rivaluterebbe automaticamente del 30%, ma il Sudeuro (quello che toccherebbe a noi) si svaluterebbe altrettanto. La dinamica dei prezzi rimarrebbe agganciata al Nordeuro ma i salari e le pensioni subirebbero la sorte del Sudeuro. E già così si capisce che non ci sarebbe niente da ridere.
Nell’Italia settentrionale intanto i padroni delle fabbrichette non si farebbero cogliere impreparati: prima che la moneta unica deflagri, si organizzerebbero per tirar giù la saracinesca, licenziare in massa i dipendenti, vendere i macchinari, mettere al sicuro il ricavato e delocalizzare in qualche promettente Paese dell’Est dove i salari sono ancora “competitivi”.
Ovviamente gli sfortunati dovrebbero metter mano alle riserve di risparmio e al patrimonio immobiliare visto che i prestiti bancari avrebbero tassi insostenibili. Chi ha un mutuo rischierebbe di vedersi portar via la casa e chi invece già possiede un bene immobiliare potrebbe essere costretto a venderlo.
Molta offerta sul mercato e nessuna o una scarsissima richiesta farebbero crollare i prezzi (che sono già scesi del 6% quest’anno) e il valore delle case. L’implosione del mercato immobiliare affosserebbe anche la raccolta fiscale e costringerebbe gli enti pubblici a tagliare drasticamente personale e servizi erogati aumentando ulteriormente il tasso di disoccupazione.
Va da sé che il potere d’acquisto delle pensioni sarebbe falcidiato (altro che l’indicizzazione che reclamano i sindacati).

Se questa diventasse la desolata situazione della Padania, al Mezzogiorno, dopo un comprensibile periodo di sconcerto e di caos, l’intraprendenza della criminalità organizzata che dispone di ingenti risorse da investire potrebbero essere il volano di una insospettabile ripresa. Ovviamente gestita con le regole delle organizzazioni malavitose in totale evasione contributiva e fiscale ma che darebbe la pagnotta agli “uomini d’onore”.

A dare un contributo però potrebbe essere anche l’instabilità politica del Maghreb: il paradiso delle vacanze a basso costo essendo temporaneamente indisponibile, potrebbe essere rimpiazzato dalle coste e dalle isole italiane. Una colata selvaggia di cemento per costruire resort e villaggi sulle spiagge meridionali (ma pure della Sardegna) che potrebbero accogliere i ricchi turisti del Nord facendo profitti sul costo stracciato della manodopera procurata dalla malavita che poi correrebbe a reinvestire i capitali nella florida piazza di Londra dove, grazie alla miopia politica dei governanti europei, affluirebbe (senza transitare attraverso i conti correnti delle banche nazionali) il denaro più o meno pulito degli affari dei nuovi ricchi.

Per gli altri l’alternativa alla miseria sarebbe quella di emigrare, come agli inizi del Novecento, accettando lavori dequalificati e dovendo lottare con la concorrenza della manodopera extracomunitaria sottopagata. Una corsa al ribasso che cancellerebbe le conquiste dei lavoratori in materia di salari e orari.
Prendere o lasciare: il modello Marchionne portato alle estreme conseguenze. Insomma dall’esplosione dell’euro noi avremmo tutto da perdere e veramente poco da guadagnare. L’euroscetticismo non ce lo possiamo permettere a meno di non decidere consapevolmente di chiedere subito l’annessione alla Gran Bretagna.

 

Il pensiero di Destra nell'epoca moderna.Scritto da:Nicola Giordano

08.12.2011 08:36

Come convivono lo spirito statalista e il cuore liberale?

Navigando nella blogsfera è abbastanza frequente imbattersi in accese polemiche fra liberali e libertari che sostengono il centrodestra e persone di estrema destra (il blog di Vandea Italiana ne è un esempio).

I liberali e i libertari accusano chi difende il fascismo di essere un socialista di destra, mentre questi ultimi sostengono che i liberali e i libertari non possono militare all’interno del centrodestra perché sarebbero culturalmente incompatibili con esso, soprattutto in virtù delle loro posizioni riguardo i temi etici.

Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
La scienza politica distingue i regimi democratici da quelli non democratici e divide questi ultimi in regimi totalitari e regimi autoritari.

I regimi totalitari sono regimi nei quali vigono le seguenti caratteristiche:
-assenza di pluralismo (subordinazione di tutti gli altri possibili attori –militari, burocrazia, Chiesa- al partito unico);
-esistenza di un’ideologia ufficiale articolata e precisamente definita;
-mobilitazione frequente imposta dall’alto, allo scopo di cancellare i confini tra privato e pubblico;
-un piccolo gruppo o un leader al vertice del partito unico;
-limiti non prevedibili al potere del leader e alla comminazione di sanzioni (il leader esercita il potere in modo assolutamente arbitrario e ricorre al “terrore”).

I regimi autoritari “sono sistemi politici con un pluralismo politico limitato e non responsabile, senza una elaborata ed articolata ideologia-guida ma con mentalità caratteristiche, senza mobilitazione politica estesa o intensa tranne che in alcuni momenti del suo sviluppo e con un leader o a volte un piccolo gruppo esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale ma in realtà abbastanza prevedibili” (Juan Linz, 1964).
A differenza di quanto avviene in un regime autoritario, il potere del leader non è mai completamente arbitrario, perché creerebbe troppi contraccolpi sia nel ristretto circolo dei suoi collaboratori (che gli resisterebbero) sia nella configurazione delle organizzazioni che operano all’interno del pluralismo limitato che si sentirebbero minacciate nella loro pur ristretta autonomia.

Esempi di regimi totalitari sono l’Unione Sovietica e la Germania nazista.
Esempi di regimi autoritari sono l’Italia fascista (i gruppi che avevano un certo margine di autonomia e con i quali il fascismo non potendoli sottomettere completamente fu costretto ad accordarsi erano la monarchia, le forze armate, la burocrazia, la Chiesa cattolica, gli industriali e gli agrari), la Spagna franchista ed il Portogallo di Salazar.

Da un punto di vista squisitamente “tecnico” fascismo e comunismo sono effettivamente due cose diverse.
Ma il punto non è questo.

Ci si rende conto che persone che sostengono ideologie politiche che si sono combattute, non solo verbalmente ma anche attraverso duri e violenti scontri tra i propri militanti che si sono susseguiti nel corso dei decenni, possano trovare offensivo un accostamento tra il comunismo ed il fascismo.
Si potrebbero sottolineare alcune analogie tra militanti di estrema destra e di estrema sinistra, come ad esempio l’avversione nei confronti della globalizzazione, un diffuso antiamericanismo (anche se per ragioni diverse) e un pregiudizio nei confronti dello Stato di Israele, ma si potrebbe ribattere che sul piano dei temi etici anche tra liberali e sinistra ci possono essere convergenze.
Il punto centrale della questione è lo statalismo.
Militanti di destra che hanno un giudizio non negativo del fascismo e comunisti hanno in comune la concezione di uno Stato forte che deve intervenire in un gran numero di aspetti della vita dei cittadini per regolarla; differiscono per quanto riguarda le idee sul contenuto degli interventi operati dallo Stato, ma non sul principio che vede la presenza di uno Stato intervista come un fatto positivo.
Certo, il fascismo al suo interno (soprattutto inizialmente) aveva varie anime, ma è difficile negare il carattere fortemente statalista del regime che si è concretamente affermato (le corporazioni legalmente riconosciute ed elevate a componente istituzionale, la creazione dell’Iri ed il controllo statale delle imprese, i sussidi, gli interventi nel settore del welfare) non fosse fortemente statalista.
I liberali, avendo come obiettivo uno Stato che abbia funzioni minime (e ancor di più i libertari, che combattono l’idea stessa di Stato) ovviamente non possono che dissentire da questa impostazione,e criticano indifferentemente ogni tipo di statalismo (a prescindere dal carattere dei suoi interventi).
E sono pienamente legittimati a militare nel centro destra, in virtù di una visione comune con i conservatori per quanto riguarda la politica economica e la politica estera, conducendo una battaglia per una modernizzazione culturale di questo schieramento per quello che riguarda le cosiddette questioni “eticamente sensibili” che possa portare a compromessi proficui e positivi come quelli rappresentati da Nicolas Sarkozy in Francia o da Rudolph Giuliani negli Stati Uniti.
"Scomuniche" nei loro confronti mi sembrano decisamente fuori luogo.

 

E' l'ora del Coraggio della Politica.Scritto da:Nicola Giordano

30.11.2011 08:39

Coraggio e nuove idee.Questo può cambiare l'Italia.

Sembra essere giunto il momento.Il momento di un cambiamento,il momento di una inversione di rotta,netta e decisa.E per fare questo serve ciò che spesso sembra mancare,il coraggio,il coraggio della politica. Ma cosa significa? Politica come azione volta al bene comune, che deve essere perseguito da chi riveste pubbliche funzioni e in momenti come questo ha il compito di gestire l’incertezza del paese investendo e rischiando.

Il coraggio, appunto, di agire seguendo due linee ben precise: collaborazione e partecipazione, rinunciando a quella parte retorica della polemica anticasta che non fa il bene del Paese. E che, invece, è stata ampiamente fomentata sia da certi partiti che dai media.

Un tema complesso su cui riflettere, quello della "politica coraggiosa", specialmente oggi che a guidare il Paese è un governo di tecnici. E' necessario tornare quanto prima al normale andamento della democrazia, quello per cui gli esecutivi li scelgono gli elettori. E in questo contesto il Pdl riflette, si interroga, perché ogni stop presuppone una ripartenza. Un nuovo avvio che deve, secondo Mantovano, partire dal presupposto che gli attuali elettori del centrodestra non hanno smesso di sostenere certe idee e che difficilmente voteranno per una sinistra che oggi appare più disgregata che mai. Il vero nemico, piuttosto, è l’astensionismo figlio della disaffezione e dell’indifferenza che vanno combattute rivedendo alcuni aspetti del modo di fare politica, in un sistema che dal 1994 ad oggi ha cambiato assetti e ora necessita di diventare più inclusivo, di poggiarsi su principi più forti e non negoziabili da rintracciare in quel diritto naturale fatto proprio dal popolarismo europeo come base per qualsiasi scelta positiva. Tutti pilastri che si pongono in antitesi con il relativismo imperante.

Bisogna trovare il modo di appassionare nuovamente i cittadini alla politica, ma per fare ciò è necessario anzitutto ritrovare unità e compattezza, che non vuol dire unanimità ma dialettica, basata sul confronto e sulla valorizzazione delle diversità di opinione.

C'è da fare senza dubbio molta autocritica, ma allo stesso tempo va chiarito che quella della politica interna è stata solo una parte della crisi, che è invece una crisi internazionale, frutto dell'abisso venutosi a creare a livello globale tra economia reale e virtuale, e che si mescola con un'altra crisi, quella del direttorio franco-tedesco e, soprattutto, dell'intero progetto europeo. Un’Europa nata per ricucire gli strappi e le ferite delle guerre ideologiche tramite la creazione di una condivisione identitaria tra gli stati membri, che muovesse dalla storia e dalla cultura comune e che favorisse una naturale cessione delle singole sovranità nazionali in favore di un'unica sovranità europea.

Peccato che etica, cultura, identità non siano riuscite a dar vita a un'unione politica che sostenesse quella economica: alla moneta unica si ferma l’opera europea e le fonti normative hanno finito per essere solo un “vincolo”, un laccio stretto per i paesi membri, specialmente per quelli con un'economia instabile come la nostra, centro della crisi perché punto di collegamento tra Europa baltica e Europa mediterranea, tra Nord e Sud.

Allora l’Italia, che è ferita ma viva, deve ripartire facendo attenzione ai localismi tanto quanto alle esigenze internazionali. Deve guardare alle nuove grandi sfide trovando gli strumenti giusti per affrontarle, con il coraggio di quella politica che è gestione della cosa pubblica nell'esclusivo interesse del Paese. Un obiettivo comune che non può dividere ma, al contrario, deve unire. E' questa la "Nuova Italia".

 

Italiani per nascita o per diritto? Scritto da:Nicola Giordano

25.11.2011 08:49

Regalare per nascita la cittadinanza?

Nei giorni scorsi il Capo dello Stato, dimostrando che il Governo Monti non dovrà occuparsi solo della crisi economica (!), ha auspicato che si cambi la legge sulla cittadinanza, introducendo il principio del ius soli. Principio in base al quale, si diventa cittadini italiani per il sol fatto di nascere in Italia, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. Ancora oggi questa possibilità non è (fortunatamente) contemplata: si diventa cittadini italiani principalmente perché si nasce da cittadini italiani.
Apparentemente (ma solo apparentemente) la possibile riforma potrebbe sembrare un atto di civiltà. In verità, non lo è. Di civiltà ce n’è poca. C’è piuttosto un tanto al chilo di propaganda sinistrosa e di buonismo che conferma – malgrado qualcuno se ne sia dimenticato (o abbia fatto finta) – che Giorgio Napolitano è ancora parte integrante della sinistra italiana, e ne persegue i suoi (deleteri) obiettivi politici, che tutti ben conosciamo.
È chiaro che introdurre il principio dello ius soli è una pazzia. E lo è perché è come se si stesse regalando la nostra cittadinanza al primo arrivato. Sarebbe sufficiente che una immigrata varchi il confine clandestinamente, partorisca a Bolzano e il gioco è fatto. Il figlio diventa cittadino italiano, e la clandestina – in virtù del principio del ricongiungimento famigliare – ottiene per magia il permesso di soggiorno senza neanche lo sforzo di chiederlo, di trovarsi un lavoro o di imparare la nostra lingua. È sufficiente fare un figlio in Italia, e il resto della famiglia la raggiungerà. E certamente non si potrà discriminare tra immigrato regolare e irregolare, pena la violazione del principio di uguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost. Perché sarebbe illegittima una norma che stabilisse che solo il figlio dell’immigrato regolare acquista la cittadinanza e non anche quello dell’immigrato irregolare.
Dunque a conti fatti ci ritroveremmo una marea di immigrati che partorirebbero in Italia con il miraggio del soggiorno facilitato e con tutte le problematiche sociali e i costi economici per la collettività che ne derivano. Senza contare che potrebbe crearsi una profonda e pericolosa frattura culturale tra la massa dei “nuovi” italiani per ius soli e gli altri italiani. Non possiamo infatti dimenticare che i flussi migratori in Italia provengono soprattutto dall’Africa e dai paesi arabi e dunque da realtà culturali e sociali completamente diverse dalle nostre e spesso legate a norme tribali e religiose incompatibili con il nostro vivere e i nostri principi e valori. E del resto, se abbiamo già problemi oggi con quelli già presenti nel nostro territorio, figuriamoci se venisse introdotto il principio dello ius soli. Ci ritroveremmo a vivere sopra una polveriera etnica che al confronto le Banlieue francesi sono state un litigio fra educande.
D’altro canto, spesso si sente affermare che lo ius soli è necessario perché l’Italia è un popolo di vecchi, e le nascite sono basse, mentre gli stranieri hanno un tasso demografico maggiore. In altre parole, secondo questo ragionamento, anziché incentivare le nascite in Italia, anziché introdurre leggi che inducano i giovani italiani a formare famiglie e famiglie numerose, si pensa di risolvere il problema nel modo più facile: “importando” i figli di cittadini di altre nazioni e culture. Va beh che siamo in epoca globalizzata, ma importare anche esseri umani mi sembra davvero troppo. In altre parole, è come se io – negoziante – anziché vendere mozzarelle italiane che costano di più, importi quelle cinesi, perché il loro prezzo è inferiore (e il mio conseguente margine di guadagno è maggiore). Potranno essere anche buone mozzarelle, ma pur sempre non sono italiane. E acquistandole certo non aiuterei l’economia italiana, ma incentiverei quella straniera a danno della prima.
Brutto affare, vero? Del resto, però, non possiamo lamentarci. Questa è la politica della sinistra. La conosciamo perfettamente: è una politica propagandistica e demagogica. Più immigrati con il diritto di voto, più voti alle politiche. Logico no? Perché dunque agevolare il benessere degli italiani (che poi non ti voteranno), quando è più facile cavalcare il disagio dei nuovi italiani e della massa di immigrati loro connazionali che per effetto del ricongiungimento famigliare approderebbero nel nostro paese senza lavoro e senza uno straccio di progetto di integrazione? Ma questi sono ovviamente dettagli di cui la sinistra sembra non importarsene. Come sempre del resto…

 

C'è qualcosa di strano.Scritto da:Nicola Giordano

20.11.2011 08:34

Mai visto un Governo osannato prima ancora di iniziare.

Adesso che è stato rivelato finalmente il programma del governo Monti e si può prendere atto che non presenta al suo interno nessuna ricetta miracolistica in grado di far calare subito lo spread o cancellare con un tratto di penna il debito pubblico, la domanda che ci si deve porre è quale sia la ragione per cui il nuovo esecutivo abbia potuto godere, prima ancora di essere formato e di aver reso noto le sue intenzioni programmatiche, di un consenso acritico così ampio e convinto tra le forze politiche e nell'opinione pubblica nazionale.
Una risposta può essere che il consenso aprioristico e la cambiale in bianco firmata dagli italiani a Monti è la conseguenza naturale ed obbligata del dissenso e nel credito di fiducia accumulati da Silvio Berlusconi negli ultimi due anni della sua terza esperienza a Palazzo Chigi. La risposta è corretta ma molto parziale.
Perché l'entusiasmo preventivo per Monti non è solo il frutto della delusione per Berlusconi ma anche il punto d'arrivo di una diffidenza e di un rifiuto generalizzato per la politica in genere che sono nati sicuramente dalla incapacità della stessa politica di rispondere alle attese popolari con serietà e competenza.
Ma che sono anche il frutto di una campagna mediatica che non ha precedenti nella storia del nostro paese (se non ai tempi del regime fascista) per ampiezza, insistenza, determinazione ed incredibile conformismo. Se oggi Monti viene salutato come salvatore della Patria, se è nato un governo in cui non figura nessun eletto dal popolo, se il paese è stata di fatto commissariato dai grandi poteri stranieri e nostrani, se l'avvento dell'esecutivo tecnico viene salutato come una pausa salutare per la rigenerazione di una politica malata (curiosamente anche l'avvento di Pinochet in Cile ebbe la stessa motivazione ), una buona parte di ragione sta nella ossessiva e tambureggiante campagna condotta per anni da tutti i grandi media del paese contro non solo il Cavaliere ma l'intera classe politica.
Non si è trattato di una normale campagna rivolta al semplice obbiettivo di liquidare una volta per tutte Berlusconi. Si è trattato di una operazione più complessa, più raffinata e più ambiziosa indirizzata a conquistare in maniera definitiva ed irreversibile quella egemonia culturale e politica che era stata in passato l'obbiettivo indicato da Antonio Gramsci per la classe operaia e che è diventata il risultato conseguito da una casta più esclusiva ed intoccabile di quella politica.
L'operazione è partita da lontano ed è stata portata avanti con grande capacità mobilitando tutte le risorse mediatiche dei cosiddetti “poteri forti”. Ed ha conseguito il clamoroso risultato di riuscire in quell'impresa di cacciare il Cavaliere su cui avevano fallito i partiti e la magistratura.
Ma a questo risultato si è aggiunto quello più alto ed importante di aver conquistato in maniera definitiva quell'egemonia culturale che ha prodotto il pensiero unico del consenso acritico e generalizzato per il governo della emarginazione della politica e del trionfo dei “padroni” reali del paese.
Il centro destra, che pure sostiene l'esecutivo simbolo della sua sconfitta, ha la responsabilità di aver favorito in maniera dissennata questa operazione. Non aver capito in tutti questi anni che il terreno della comunicazione è quello dove si combatte per la conquista dell'egemonia è stato un errore marchiano e clamoroso.
E non aver fatto crescere una generazione di comunicatori di cultura liberale è stato non solo un errore ma addirittura una ignominia. Ma la sinistra sbaglia nel salutare con soddisfazione la sconfitta subita dal centro destra sul piano della comunicazione. Perché la conquista dell'egemonia da parte dei media dei poteri forti è stata compiuta soprattutto ai suoi danni.
Da adesso in poi saranno proprio le forze politiche e culturali della sinistra il bersaglio del pensiero unico dei media dei “padroni”. Per imporre una volta per tutte la supremazia della supercasta sulle vecchie caste minori ed in disarmo!

 

Legittimità popolare,o tu sconosciuta.Scritto da:Nicola Giordano

23.11.2011 09:10

La sovranità spetta al popolo...mica tanto.

Il governo Monti è frutto di un fallimento: il fallimento conseguito da una classe dirigente che ha ridotto il paese sull’orlo del baratro, ad un passo dal default finanziario. Possiamo disquisire per ore sulle responsabilità individuali, sul clima politico infernale che è stato sapientemente costruito negli ultimi vent’anni, sull’ondata speculativa delle ultime settimane e sui presunti gesti di responsabilità del tutto tardivi. Un dato però è certo: la politica è stata esautorata dalle sue funzioni per manifesta incapacità, e su questo gli italiani dovranno riflettere in prossimità del voto.

Se tale premessa è d’obbligo, una premessa che a ragion veduta ci consente di sostenere un pugno di tecnici nell’azione di risanamento e riscossa nazionale acclamandoli come liberatori, bisogna tuttavia ammettere che le modalità con cui è stato eseguito il passaggio di consegne dovrebbero indurre l’intera collettività ad una riflessione. Perché sì, non v’è dubbio, la nostra è una repubblica parlamentare ed il presidente Napolitano ha agito nel solco della Costituzione, avendo ben chiare le prospettive del momento; ma in un paese normale – per usare un’espressione cara all’area dalemiana – l’idea che un Esecutivo scelto dal popolo, quale esso sia, venga ribaltato improvvisamente in virtù di un clima di sfiducia proveniente dai mercati, avrebbe indotto qualche considerazione assai poco lusinghiera. Perché i mercati non sono né di destra né di sinistra, ma valutano l’affidabilità finanziaria di un paese. E se i mercati, di punto in bianco, riescono a ribaltare la volontà popolare, forse qualche meccanismo nell’assetto democratico necessità di un rodaggio.

Il governo Monti è saldamente insediato, le forze politiche maggiori hanno dimostrato tutta la loro impotenza, sicché non ci sono minacce che possa consumarsi per loro iniziativa. Sono stati fatti i discorsi programmatici, è stata annunciata la nuova era, è stata riscossa una fiducia larghissima. A fronte di ciò i mercati continuano a pestarci e i titoli del nostro debito pubblico continuano ad essere venduti a tassi d’interesse troppo alti. Per noi non c’è nulla di cui stupirsi, avendo già avvertito che lo davamo per scontato, per quanti hanno sostenuto il contrario, con saccenza pari a insipienza, sarebbe occasione per una sana vergogna.
Questa ferita, che gronda sangue e quattrini dei contribuenti, può essere suturata solo in sede europea. Lo ripetiamo da troppo tempo e sono stati commessi, specialmente da tedeschi e francesi, troppi errori. Ora la Commissione europea abbraccia l’idea degli eurobond, ed è per noi l’occasione di una riflessione amara, non potendosi ancora tirare il fiato. Ne scriviamo fin dall’esplodere della crisi greca, quando le armate della speculazione individuarono il pertugio da cui sventrare l’eurozona e s’accanirono su un debituccio marginale, reso grave solo dall’essere in capo a un governo che aveva barato sui conti. Era roba da niente e si sarebbe potuto chiudere con poca spesa, se si fosse compreso quel che a noi sembrava evidente: da lì si cominciava. Francesi e tedeschi pensarono d’essere furbi a salvaguardare le loro banche, facendo la faccia feroce con i greci, e adesso si ritrovano ad essere declassati di fatto (presto arriva anche la notifica).
I giornali italiani, con la solita superficialità provinciale, mostrano soddisfazione per il fatto che il professor Monti è stato invitato ad un incontro con i due colpevoli, Merkel e Sarkozy. Va bene, è una buona cosa. Ma esiste la sovranità nazionale ed esiste la governance europea: in virtù della prima sono gli elettori nostrani a stabilire da chi intendono farsi governare e rappresentare, per la seconda non tocca agli altri stabilire se e chi d’invitare o meno alle riunioni. Il punto è dirimente e delicatissimo, perché gli eurobond, come ogni altra federalizzazione del debito, comportano una cessione di sovranità e una federalizzazione delle scelte di politica economica, il che va benissimo, anzi è auspicabile, in una logica d’integrazione federale, ma va malissimo ove qualcuno pensi di gestire gli interessi altrui come fossero parte di un protettorato.
Non si tratta (solo, ma certamente anche) di una faccenda d’orgoglio nazionale, bensì di concreta tutela dei nostri interessi. I soldi che saranno spremuti agli italiani devono andare a diminuire un debito pubblico colpevolmente troppo alto, non a sostenere istituti bancari altrui, che fin qui hanno speculato contro di noi approfittando di tassi d’interesse per loro assai remunerativi. E le misure che saranno adottate per favorire lo sviluppo, che siano le benedette e che dovrebbero essere operative da anni, ma che pur comportano la messa in discussione di equilibri sociali e la revoca di sicurezze acquisite, non devono essere depotenziate dalla perdita di competitività derivata da un onere troppo alto del debito pubblico. Noi abbiamo commesso errori gravi e ci siamo trascinati dietro un peso morto per troppo tempo, ma il nostro è pur sempre un Paese potentemente vitale ed esportatore, che non intende lasciare quote di mercato a chi ci lega le mani perché non le si occupi.
La cosa tragica è che si sente le forze politiche parlare di tutto, spesso a vanvera, ma non di questo. Sembra che i due partiti più grossi abbiano esaurito il loro compito, e la propria capacità progettuale, nel delegare al governo Monti di fare il necessario. Quasi che il “necessario” sia neutro e quasi che farlo fare ad un altro possa significare che non se ne risponderà. E’ ovvio il contrario, quindi il problema politico consiste nel come riorganizzare il consenso alla luce di un passaggio, breve o lungo che sia, che ha fatto scivolare gli interpreti della sovranità popolare alle spalle di una compagine legittima, ma estranea al consenso.
Due sono gli errori che possono nuocere alla nostra democrazia: 1. credere che il consenso si misuri con l’applausometro, anziché con il voto; 2. non prepararsi con saggezza, quindi anche con una riforma del sistema, alla scadenza elettorale. Non è un crimine parlarne, è da incoscienti non farlo.
 

Come veri sciacalli.Scritto da:Nicola Giordano

11.11.2011 09:14

Altro che Marxismo.Elogio del capitalismo In chiave antiberlusconiana.

Iniziamo con da un dato: il prodotto interno lordo della Grecia equivale a metà di quello della provincia di Vicenza. Quindi il Pil di una nazione dell'eurozona non arriva nemmeno a metà di quello di una provincia del nostro Lombardo-Veneto. Questo dato di per sé qualifica come visionari e surreali, a voler esser generosi e tralasciando il turpiloquio da caserma, tutti i paragoni tra Roma e Atene che gli esponenti della sinistra hanno propalato in questi mesi con occhioni lacrimevoli e urla sofferte, Enrico Letta in primis.

Il paragone, pertanto, non si pone. Eppure non ha mancato di suscitare potenti suggestioni, di intimorire tanti italiani che, non avendo un master in economia bontà loro, non hanno la minima idea di come destreggiarsi tra i meandri dell'oscuro codice tecnocratico fatto di bond, spread, sub-prime, avanzi primari, BTP-futures e Gran Bazù dell'Impero di Katonza, per parafrasare il compianto Jacovitti. Sprovvista come è da anni di qualsivoglia contenuto politico credibile e, aggiungiamo noi, gustoso, ovvero in grado di aggregare, affascinare e convincere il potenziale elettore la sinistra nostrana, che è tutto fuorché moderna ma al limite post-marxista, ha compiuto un atto equiparabile alla blasfemia se rapportato al contesto religioso: con un triplo salto carpiato deifica oggi il mercato ponendo la politica in ruolo ancillare rispetto a quest'ultimo per un calcolo opportunistico puro e semplice.

Quella stessa sinistra che dalla sua genesi fino al tracollo di Lehman Brothers è sempre stata pesantemente e pregiudizialmente critica nei confronti della finanza internazionale e del sistema bancario europeo oggi, con assoluta nonchalance, molla il Capitale in soffitta e considera vangelo il Financial Times o, più modestamente, Il Sole 24Ore, equiparando le fluttuazioni dello spread all'oroscopo del giorno. In assenza di un'agenda politica propria, la sinistra trova utile pertanto farsela dettare punto per punto da quegli organi di stampa che sono espressione netta ed incontrovertibile dei predatori che mirano ad un solo obiettivo, ovvero speculare indisturbati a nostre spese facendo strame del nostro Paese: bye bye politics, welcome tecnocracy, per semplificare.

Questa nuova attitudine teo-economica è riscontrabile con cristallina evidenza nel postulato in base al quale l'uscita di scena di Silvio Berlusconi avrebbe ridimensionato in positivo l'andamento dei mercati e il divario tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi. Questo nesso di causalità è stato venduto da tutti, Letta, Bersani, Bindi, Fassina, Fassino, Orlando come fosse oro colato. Non importa qui evidenziare come tale postulato sia risultato assolutamente campato per aria, quanto più analizzare criticamente cosa implichi detto postulato e quale logica si celi dietro ad esso. Se la sinistra ritiene che l'insieme dei nostri rapporti macroeconomici sia pesantemente influenzato dalla prosecuzione o meno di una esperienza di governo per il semplice fatto che quest'ultimo è presieduto da un soggetto piuttosto che da un altro, questo implica in automatico che gli italiani non sono in grado di esprimere liberamente un esecutivo di loro gradimento, poiché tale libera espressione sarebbe comunque subordinata al gradimento, ben più incidente e determinante, di organismi istituzionali e di lobby occulte che stanno ben al di fuori dei patri confini: un regime di democrazia permanentemente commissariata che assume il nome di eterodirezione.

Un concetto di «democrazia»  che è una diminutio dei nostri diritti politici non tollerabile né giustificabile. E, attenzione, adottare un tale approccio subiettivo nei confronti delle elite finanziarie internazionali in un momento particolarmente critico che imporrebbe anzi una vera e propria resistenza nazionale, in virtù di quella elementare responsabilità politica di cui tutti parlano ma che nessuno a quelle latitudini pratica, pone sulle spalle (quanto solide lo vedremo...) della sinistra italiana un fardello infamante e gravemente vulnerante del nostro tessuto socio-ecomico. Un fardello destinato un domani non lontano a trasformarsi in eredità, dalla quale nessun vantaggio potremo mai trarre ma solo un'altra, colossale fraccata di tasse e balzelli...senza più avere nulla con cui onorarli dopo essere stati debitamente spolpati da un'Europa che pretende oggi di accollarci, grazie al ticket «Merkozy», lo sfacelo delle sue banche «più prestigiose», gonfie allo spasmo di sub-prime statunitensi e, peggio ancora, di titoli di Stato greci, e domani chissà... A fronte di questo poco allegro e forse imminente scenario, ci si chiede chi, come e perché risulti maggiormente funzionale a questo piano, già perfezionato e in corso d'opera, di dismissione dell'Italia e chi, al contrario, sia in grado di arginare prima e sterilizzare definitivamente poi le pericolose euroambizioni.

 

 

Un'Italia che guardi avanti.Scritto da:Nicola Giordano

30.10.2011 08:05

La speranza:un soggetto politico che abbracci le tante idee della società.

Interrogandoci sul futuro della nostra Italia, finiamo stranamente per trarre conclusioni pessimistiche. Non mancano certo spunti positivi ma questi non cambiano la nostra valutazione. Semmai amplificano la nostra amarezza per una deriva che sarebbe evitabile sol che lo volessimo, sol che risvegliassimo in noi il senso di appartenenza ad una Comunità ricca di storia e, per secoli, faro di civiltà. Amarezza che aumenta quando osserviamo i molti talenti che si sprecano, i molti casi di persone che con attenzione e fantasia lavorano silenziosamente per migliorare le condizioni di vita della Collettività di cui fanno parte. Sono casi non sempre noti, che dovremmo far conoscere anche per la grande forza di contagio che recano in sé. Eppure il nostro Paese non accellera; cresce poco e male; perde vistosamente terreno; vede accentuarsi gli squilibri sociali; sembra irrimediabilmente incamminato sulla strada di un declino che è, al tempo stesso, economico, sociale, culturale ed etico. Sappiamo tutti che questi mali vengono da lontano e sono imputabili solo in piccola parte alla grave crisi iniziata nel 2008 e ancora in atto. Sicché quando tutto il mondo uscirà in qualche modo da questa crisi, il nostro Paese si ritroverà con gli stessi problemi di prima, in qualche caso addirittura aggravati.
 
Sui motivi di questo stato di cose molto si dice e altrettanto si scrive.Non vogliamo aggiungere un´altra prospettazione alle tante, più o meno plausibili, che circolano. Ci sembra più opportuno, invece, domandarci se e come il nostro Paese può uscire dal pantano nel quale è finito. Che ne possa uscire non abbiamo dubbi. Ma non abbiamo neppure dubbi sul fatto che non esistono ricette bell´e pronte, capaci di produrre effetti immediati. Non esistono soluzioni miracolistiche. Di questo dobbiamo essere consapevoli e dobbiamo guardare con sospetto e scetticismo a tutti coloro che ci vorrebbero far credere il contrario. La strada è lunga e impegnativa. Sul piano più propriamente politico, dobbiamo superare quella sorta di contrapposizione ideologica, latente nella nostra società, che avvelena i rapporti civili; ha già prodotto molti guasti e, quel che è peggio, promette di produrne altri ancora maggiori. Più che le nostre qualità, infatti, esalta i nostri difetti: spinge alla visione di breve periodo, alimenta l´illusione che tutti i problemi si possano risolvere, hic et nunc, con un provvedimento normativo, con una riforma. E così viviamo nell´attesa messianica "delle riforme", che il più delle volte si rivelano per quello che sono: riforme malfatte, riforme fallite, perché concepite in uno spirito di contrapposizione e non di collaborazione e al di fuori di un coerente disegno complessivo.
 
L´Italia ha bisogno di una grande svolta e di una forza politica che abbia al suo interno un gruppo di persone capace di attuarla. L´Italia non ha bisogno di un improbabile leader carismatico, figlio di una concezione verticale e sostanzialmente sbagliata del potere. Stiamo vedendo che questo modello porta non ad un´accelerazione dei processi decisionali, ma ad un vuoto e ad una paralisi proprio sul piano dei fatti e della strategia, che rivelano l´assenza di un´elaborazione collettiva delle politiche e l´esigenza di creare un gruppo dirigente. Per questo riteniamo necessaria una forza politica che abbia in sé un gruppo di persone che, dopo aver raccolto le tante idee che circolano nella nostra società, sappia costruire una "politica" di vasto respiro, sappia ottenere su di essa un vasto consenso popolare e sappia infine realizzarla. Non possiamo più vivere alla giornata. Non possiamo andare avanti con "manovre" più o meno improvvisate, confezionate in fretta, alla bell´e meglio nel tentativo il più delle volte vano di appagare le aspettative dei cosiddetti mercati; con manovre che lacerano sempre più il già lacero tessuto sociale del nostro Paese, senza produrre alcun apprezzabile effetto in termini di sviluppo. Ormai è chiaro che questo tipo di "manovre" non funziona. Il loro susseguirsi a ritmo sempre più incalzante punta ad un pareggio del bilancio annuale che probabilmente non raggiungeremo e se pure raggiungessimo, si tratterebbe pur sempre di un equilibrio assai precario, perché ottenuto senza scalfire l´enorme moloch del debito pubblico e senza ridurre, anzi accrescendo, le difficoltà dei ceti economicamente più deboli.
 
Non possiamo più vivere alla giornata. Dobbiamo darci delle mete che abbiano il più alto consenso possibile dei cittadini. Del resto siamo in epoca di globalizzazione, se non vogliamo soccombere, dobbiamo darci un ruolo nella nuova "divisione planetaria del lavoro" che è la naturale conseguenza della globalizzazione. Dobbiamo abituarci a pensare in termini di medio-lungo periodo, che non è sia chiaro una fuga dalle difficoltà dell´oggi e dalla durezza dei problemi che abbiamo di fronte; è piuttosto un modo per affrontare con metodo e coerenza questi problemi. Ricordiamoci che, per livello di reddito medio, noi italiani siamo nel primo 10-12% del mondo. Dietro di noi incalza l´88-90% dell´umanità. Se, in quella graduatoria, non vogliamo scivolare verso il basso cosa che in realtà sta già accadendo dobbiamo darci da fare; e molto. Dal canto nostro siamo convinti che in quella scala possiamo addirittura salire, perché abbiamo tutti i numeri per farlo. Ma dobbiamo impegnarci tutti con grande generosità, senza miopi egoismi ne ottusità e faziosità ideologiche anti berlusconiane,(sinistra docet).
 
 

Ecco come dilapidare il denaro di tutti.Scritto da:Nicola Giordano

28.10.2011 08:51

Così,anni e anni di mal governo di sinistra (e non solo),hanno ridotto l'Italia.

La spesa pubblica, ha dichiarato qualche giorno fa non senza suscitare ilarità,il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, commentando le richieste contenute nell’ormai famosa lettera della Bce, non ètutta sprechi”; e quindi l’Eurotower non deve esagerare chiedendo di falcidiarla.Ha perfettamente ragione, Fassina. Infatti, nel nostro paese, essa arriva solo al 52% del Pil; un livello che, se si eccettuano cinque nazioni (Francia, Belgio, Svezia, Finlandia e Danimarca), nessuno raggiunge in Europa (lo dice Banca d’Italia, in questo rapporto, a pagina 4). Allo stesso modo, essa è aumentata soltanto di 220 miliardi di euro, negli ultimi due lustri; e, grazie alle due manovre estive approvate recentemente dal Parlamento, nei prossimi anni crescerà soltanto di altri 36 miliardi. Così come, dal 2000 al 2009, la spesa delle Regioni, in media, è lievitata soltanto del 75% (con punte del 143%); passando da 119,3 a 209 miliardi di euro. Il che, ne siamo certi, avrà consentito agli italiani di usufruire di servizi pubblici ancora migliori; come non se ne trovano in alcuna parte del vecchio Continente.La spesa pubblica, dunque, non è “tutta sprechi”:e i politici mica la usano, quasi esclusivamente, per dare posti di lavoro e stipendi ai propri amici.Giammai,forza non siate malfidati.Si prenda Nichi Vendola, ad esempio. Il fatto che abbia deciso di usare 150.000 euro del contribuente pugliese per finanziare una manifestazione del suo amico Vittorio Agnoletto, non rappresenta mica un infame scialacquio di risorse pubbliche (guai a pensarlo); nemmeno se si considera il fatto che, per essere impiegato nel modo descritto, quel danaro sia stato sottratto ai progetti di formazione professionale destinati ai giovani disoccupati.Allo stesso modo, solo un ottuso e fazioso polemista potrebbe sostenere che spendere 87 milioni di euro, per realizzare la nuova sede della Regione Puglia, sia un indecente sperpero di soldi pubblici (soprattutto in un periodo di vacche magre come questo). Siam sicuri, infatti, che i cittadini pugliesi trarranno enormi vantaggi dal fatto che i propri consiglieri regionali possano avere a disposizione una nuova e sfarzosa sede.Si prenda il governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo: un vero maestro nell’impiego efficiente dei soldi del contribuente. Il Nostro, per tutelare a dovere i propri corregionali, come dubitarne, ha pensato fosse indispensabile assumere – presso la Regione – una consulente di “sicilianità” (proprio così: avete letto bene). Ma a chi rivolgersi? Presto detto. Ad una persona che, lo stesso Lombardo, aveva scelto – quando era Presidente della Provincia di Catania – quale assessore al “Patrimonio, partecipate e rapporto con il Consiglio”. Meglio affidarsi ad una persona fidata, ad un’amica, per una consulenza sì complessa e delicata. Non vi pare?Per la stessa ragione, il Nostro ha pensato di affidare un’altra consulenza, quella per  l’”Organizzazione della sede operativa di Messina, informazione cittadinanza zone alluvionate, progettazione ripresa economica e sociale del territorio”, ad un professionista di grande esperienza: un giovanotto di 23 anni, laureando in Giurisprudenza, che nel proprio curriculum scrive: “Impartisco ripetizioni di latino, greco, storia, filosofia e pianoforteepianobar per serate e organista per matrimoni su richiesta”. Codesto luminare, dal contribuente siciliano, percepisce 22.000 euro annui. Meritati, naturalmente; dal primo all’ultimo.Qualche giorno fa, abbiamo scoperto che lo stato ha un patrimonio di 1.800 miliardi di euro (quasi il valore del debito pubblico), costituito da: terreni, immobili, crediti, infrastrutture, concessioni e partecipazioni in società. Quest’ultime riguardano 13.000 aziende pubbliche (tredicimila!). Ebbene, a cosa servono codeste aziende distribuite lungo tutta la Penisola? In teoria, visto che si tratta soprattutto di municipalizzate, ad erogare servizi pubblici; in pratica, a dare posti di lavoro e stipendi ad amici e clientes.Si consideri la società NapoliServizi, preposta alla cura del cosiddetto decoro pubblico. Bene. Nel gennaio del 2011, quando (la mia) Napoli era ricoperta d’immondizia in ogni dove, il Consiglio d’Amministrazione dell’azienda, nominato dalla Giunta Iervolino, ritenne opportuno deliberare un aumento di stipendio, del valore complessivo di 1,7 milioni di euro, per 13 suoi componenti (5.000 euro in più per ogni consigliere). Una cosa normalissima, quantunque scandalosa, nelle aziende controllate dallo stato (o da un qualunque ente locale). Normalissima.Come normalissimo è il fatto che codesta azienda, fin dalla sua nascita, sia sempre stata in perdita; e che il Comune, a più riprese, sia dovuto intervenire per ripianarne i debiti: l’ultima volta lo ha fatto nel 2008, con un’elargizione di 50 milioni di euro.Ma perché è in perdita, questa società? Per capirlo, vediamo innanzitutto come la descrive il Corriere della Sera: “NapoliServizi è considerata un feudo del Pd, degli ormai ex bassoliniani”.Un feudo del Pd. Interessante.Nello specifico, feudo (evidentemente) vuol dire che viene usata per assumere parenti ed amici, clientes ed elettori vari. Qualche dettaglio lo fornisce sempre il quotidiano di via Solferino:“Nel 2001, quando diventa operativa, ha 400 dipendenti, tutti ex lavoratori socialmente utili con contratto a tempo determinato. L’anno seguente ne arrivano altri 44, poi la crescita diventa quasi esponenziale, 470 assunzioni nel 2003, nel 2007 altre 500. Nel 2008, l’anno della grande crisi dei rifiuti, il Comune annuncia solenne l’intenzione di dismetterla. Poi ci ripensa e stanzia 50 milioni da mettere a bilancio per ripianarne i debiti. Nessuno si fa domande sulla causa dell’indebitamento di una società così giovane, e per giustificare l’esborso vengono aggiunte nuove competenze come le pratiche di condono, gestione del catasto urbano e dei terreni, la gestione di eventi sportivi e la vigilanza armata nei parchi, attività che richiede altri esborsi e assunzioni, perché molti dipendenti della società hanno qualche precedente penale, come ammettono i sindacati interni, e per legge non possono certo girare con la pistola alla cintura”.Ecco. Questo è il modo in cui in Italia, dal Nord al Sud estremo, si usano, nella maggior parte dei casi, le municipalizzate. E chi osa affermare che andrebbero (almeno in parte) privatizzate, proprio per sottrarle all’utilizzo vergognoso che ne fanno tutti i politici, come al solito viene accusato, da una pletora di gonzi, di essere null’altro che un affamatore di popolo.Ma non basta.Sempre per rimanere in tema di municipalizzate e di uso “efficiente” delle medesime da parte del Pd, è opportuno considerare cosa statuiscano i regolamenti locali di tale partito.Ebbene, in buona parte d’Italia, il Pd, dalle persone che nomina all’interno dei consigli di amministrazione delle municipalizzate, pretende un “pizzo”. Ovvero: coloro che vengono cooptati nei Cda delle società pubbliche, devono versare una parte dello stipendio che percepiscono al partito.Sicché i contribuenti, che con le proprie tasse pagano le spese delle municipalizzate, non solo sono costretti a mantenere gli amici dei politici assunti all’interno delle stesse; non solo sono costretti a ripianarne i debiti (fatti, per di più, per dare un lavoro a quelle stesse persone); ma devono anche contribuire a finanziare, a loro insaputa, il Partito democratico. Adesso si spiega perché, nel caso della NapoliServizi, sia stato deliberato un aumento di stipendio per 13 consiglieri d’amministrazione.Ma la spesa pubblica non è “tutta sprechi”: ché i politici mica la usano, quasi esclusivamente, per dare posti di lavoro e stipendi ai propri amici.La spesa pubblica, ha dichiarato qualche giorno fa quel gran burlone del responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, non ètutta sprechi”. Senz’altro.Si prenda, ad esempio, Nichi Vendola.Il Nostro, come noto, è un amministratore pubblico assai coscienzioso; di quelli che, quando c’è da spendere i quattrini del contribuente, lo fanno con estrema oculatezza e nell’interesse esclusivo dello stesso. Infatti, qualche tempo fa, ha ritenuto opportuno spendere 87 milioni di euro per qualcosa di assolutamente indispensabile: una nuova e faraonica sede che ospitasse le riunioni degli assessori e dei consiglieri regionali pugliesi. Come biasimarlo.Allo stesso modo, nel novembre scorso e con apposita “determina”, ha deciso fosse necessario dotare i consiglieri e gli assessori di uno strumento senza il quale, e come dubitarne, essi non avrebbero avuto modo di adempiere il proprio mandato: l’iPad. Il tutto alla ragionevole cifra di 45.000 euro. Avercene di amministratori come Vendola.Ma la spesa pubblica non è “tutta sprechi”. Per carità.Facciamo un tuffo nel passato e consideriamo il governo presieduto dal democristiano Mariano Rumor, e sostenuto da socialisti, socialdemocratici e repubblicani (oltre che dalla Dc).Nell’anno Domini 1973, esso ebbe ad approvare una leggina gustosissima che stabilì quanto segue: le insegnanti e le dipendenti pubblici, con figli a carico, da quel momento sarebbero potute andare in pensione dopo soli 14 anni di lavoro (ai loro colleghi maschi, invece, era già stato consentito di andarvi dopo 19 anni).Questa leggina è rimasta in vigore fino al 1992 e ha permesso a molte donne di andare in quiescenza addirittura all’età di 29 anni.Non lo trovate sublime? No?Avete ragione. Manca il dettaglio più importante.Buona parte di queste persone è ancora in vita. Sono 535.752 (secondo l’Inps e l’Istat) e mantenerle ci costa 9,45 miliardi l’anno.Ricapitolando. Noi spendiamo 10 miliardi di euro per mantenere persone che sono andate in pensione a 39 anni (il più delle volte), dopo averne trascorsi solo 14 a lavoro, e che ne camperanno, in molti casi, altri 20.Però la spesa pubblica italiana non è “tutta sprechi” e compravendita di voti, e chi propone la patrimoniale, aziché tagli alla stessa, non è soltanto un ladro (oltre ché un imbecille).

Senz’altro.

 

Che scuola è la nostra? Scritto da:Nicola Giordano

20.10.2011 11:39

La nostra è una scuola "comunista"?

I libri di storia delle nostre scuole sono indegni, lo sappiamo tutti, inutile prendersi in giro, l'hanno ribadito anche intellettuali come Paolo Mieli ed Ernesto Galli Della Loggia - il problema va oltre qualche manuale un po' troppo fazioso. Subito si sono levati gli scudi in nome della «libertà d'insegnamento», principio che a sproposito spesso viene sbandierato e che così formulato non trova in realtà alcuna ragione per meritare una tutela particolare. Innanzitutto, già il riferirsi all'«insegnamento», e non all'«educazione», indica che l'accento viene posto su coloro che insegnano, e non sugli alunni e i loro genitori, cui forse non si riconosce una eguale libertà educativa. Ma in concreto, con quella locuzione si intende davvero la libertà del singolo insegnante di insegnare ciò che vuole e come vuole? Se fosse così, già oggi quella libertà è negata principalmente dallo Stato, che impone programmi e metodologie e che monopolizza il 95 per cento del sistema dell'istruzione. Ma a ben vedere proprio per questo è una libertà che non ha alcun senso rivendicare. La libertà di cui si dovrebbe parlare non è quella del singolo insegnante, ma da un lato quella di ciascuno di poter istituire una scuola riconosciuta come tale dalla comunità, rispettando alcuni semplici e ragionevoli criteri, quindi la libertà dei diversi progetti educativi di poter competere tra di loro nella formazione dei giovani; dall'altro, la libertà di ciascuno di scegliere per i propri figli il progetto educativo, quindi la scuola, che ritiene migliore.

Oggi in Italia questa libertà non c'è. Non solo per il monopolio pressoché totale della scuola pubblica, quindi di un solo progetto educativo - o meglio, di diversi progetti educativi che però promanano da un unico attore sociale. Un attore che - è bene ricordarlo per sottrarsi ai retaggi e ai riflessi dell'hegelismo imperante nella nostra cultura politica - non è un ente astratto, obiettivo ed imparziale, dotato di moralità propria, ma si incarna in un preciso gruppo di persone, con braccia, gambe, occhi e a volte persino testa. Ma addirittura oggi non è possibile scegliere tra le diverse scuole pubbliche, se non ricorrendo a sotterfugi e conoscenze. Le iscrizioni seguono di norma un criterio territoriale (il domicilio), all'oscuro dei risultati e quindi della qualità della scuola cui si sta iscrivendo il proprio figlio, della sezione e degli insegnanti che gli capiteranno in sorte. Per prima cosa, dunque, la "libertà di insegnamento" dovrebbe sottomettersi al giudizio dei risultati; poi, la libertà di offrire il proprio progetto educativo dovrebbe conciliarsi con il diritto dei genitori a scegliere quello che credono migliore per i propri figli. Di questa libertà negata nessuno sembra preoccuparsi.

Se di frequente la questione dei libri di testo viene sollevata, è proprio perché il mito della "libertà di insegnamento" non si realizza nella scuola pubblica. Gli insegnanti sono culturalmente, prima che politicamente, omologati e i libri adottati sono quasi sempre gli stessi. E ciò permette ad una vera e propria lobby dell'editoria scolastica di imporre la propria visione in pressoché tutte le classi. A causa dell'altissimo tasso di uniformità culturale, il docente che volesse distinguersi, esercitando dunque la propria mitica "libertà di insegnamento", andrebbe incontro alle stigmate della "devianza", sarebbe individuato come "eccentrico", susciterebbe perplessità, sia da parte dei colleghi che dei genitori dei ragazzi, sulla propria competenza e persino sul proprio equilibrio personale, rischierebbe fino alla marginalizzazione sul posto di lavoro.

Si dirà che l'accesso alla carriera scolastica è aperto a tutti, a prescindere dal proprio orientamento politico-culturale, ma se il risultato che si determina nella scuola pubblica - e quindi nella scuola tout court - è comunque di un orientamento culturale nettamente predominante rispetto agli altri, ciò non può non condizionare i progetti educativi verso l'omologazione e quindi non può non essere riconosciuto come un problema. Un problema che dovrebbe essere percepito come grave proprio da chi straparla di libertà. Perché limita, direi nega, la libertà di educazione. Non si tratta di una banale questione politica destra-sinistra, ma di indirizzo culturale. Di destra o di sinistra, la cultura predominante nella scuola è quella statalista. E non potrebbe essere altrimenti - in questo bisogna riconoscere una coerenza e persino una efficienza nel nostro sistema scolastico - considerando l'attore sociale da cui promanano tutti i progetti educativi e a cui spetta la selezione del corpo insegnanti: lo Stato.

La scuola in Italia è "comunista" non nel senso che gli insegnanti sono "comunisti", politicamente di sinistra. Sarebbe il meno. Lo è innanzitutto in quanto sistema collettivista, statalizzato quindi statalista, quasi "sovietico" nell'inseguire il mito dell'eguaglianza, al ribasso rispetto alla qualità e al pluralismo culturale. Uniforme nella cultura ma non nella qualità, questa scuola produce da decenni un progressivo appiattimento degli standard educativi verso il basso e, pur in una certa dicotomia destra-sinistra, un conformismo statalista. Nonostante la sfiducia nelle istituzioni e lo scarso senso civico degli italiani, continua a crescere cittadini nel mito dello Stato, disillusi proprio perché allo Stato attribuiscono una presunta moralità superiore che non gli appartiene e compiti che è strutturalmente incapace di assolvere.

E se volessi che mio figlio non si abbeveri alle culture stataliste dominanti nella scuola? Mi si riconosce questa libertà? Anche qui l'ipocrita risponde: "Va bene le scuole private, ma fatevele da soli". Ok, ma ridammi indietro le tasse che pago, almeno la quota corrispondente ai costi che lo Stato non dovrebbe più sostenere per i miei figli se li iscrivessi ad una scuola non statale. Ad oggi invece lo Stato garantisce sì l'istruzione, ma solo a chi sceglie il suo progetto formativo - bella libertà! - e le poche scuole private che ci sono, sono accessibili solo alle famiglie più ricche. E a ben vedere sia le pubbliche che le private non abitano un contesto di reale competizione necessario a migliorare la qualità delle une e delle altre. La soluzione più razionale ed efficiente sarebbe la via "blairiana" di mettere scuole pubbliche e private sullo stesso piano, anzi, eliminare proprio la distinzione, con scuole pubbliche in competizione tra loro ma che si reggono su fondi (e gestione) sia pubblici che privati.

 

E' ancora legittimo il Tirannicidio?Scritto da:Nicola Giordano

24.10.2011 09:33

Oggi uccidere il tiranno è ancora sinonimo di giustizia?

«Bisogna a volte legittimare la pena di morte»; con questo lucido ammonimento il filosofo e politico Miguel De Unamuno sembra sovvertire il comune pensare.  «La pena di morte è terribile, ma necessaria!» ci si dice spesso in cuor proprio: è terribile perché è la soluzione più estrema ed è necessaria perché certi delitti (stragi, pedofilia, omicidio) meritano situazioni estreme.  L’abbattimento di una tirannia e la destituzione del satrapo che ne orchestrava le fila, sono forse l’esempio più calzante in cui la pena di morte si richiede come necessaria. Insomma: anche pensatori del calibro di Hobbes hanno teorizzato la legittimità del tirannicidio allorquando il patto sociale è minato dalle sue fondamenta.

Dunque è giusto tirar giù a fucilate il despota di turno che opprime il popolo? Questo è ciò che normalmente si pensa, si sente dire in giro, si respira nelle conventicole anche dei più acuti ragionatori contemporanei. Ma è proprio così? Il tirannicidio è davvero espressione di giustizia? Occorre risalire la corrente del ragionamento di De Unamuno per comprendere in che senso non si ha giustizia nel caso di tirannicidio. La storia certo non ha mancato di offrire numerosi esempi di comprensione: Luigi XVI e Maria Antonietta furono decapitati, certo, ma incuriosisce che anche i fautori della loro decapitazione, come Robespierre, subirono, in una sorta di contrappasso storico, la medesima sorte. Qualcosa, dunque, si percepisce immediatamente, non funziona. In questo caso, cioè quello di Gheddafi, non può nemmeno parlarsi di pena di morte, poiché questa, per essere davvero tale, dovrebbe quanto meno possedere i requisiti minimi di legittimazione formale: cioè essere inflitta tramite provvedimento di una autorità giurisdizionale alla fine di un processo in cui sia stata concessa la facoltà concreta all’imputato/condannato di esperire il suo diritto di difesa venendo giudicato da un soggetto terzo ed imparziale. Queste previsioni non mettono ovviamente al riparo la pena di morte dalle più sane critiche etiche, filosofiche e giuridiche, ma almeno possono essere utili per distinguerla da un fenomeno certamente più spietato e giuridicamente barbarico, ove barbarico deve essere inteso nel suo senso etimologico - per i greci il barbaro era il forestiero, cioè colui che balbettava il greco, che non aveva punti in comune con la propria cultura nemmeno al più elementare piano linguistico: era il diverso per definizione, l’estraneo, l’alieno.

In questo caso barbarico si riferisce a colui che balbetta il linguaggio della giustizia, tramite il linciaggio, tramite l’esecuzione sommaria, tramite l’uccisione a freddo con un colpo alla tempia. Saddam Hussein è stato ucciso, ma almeno ha avuto, fuori da ogni polemica ideologica sulla maggiore o minore imparzialità del tribunale che lo ha giudicato, la possibilità di difendersi in un processo, e ogni giorno in più che ha vissuto, si può ritenere, che sia stata la prova più diretta in favore del diritto. Gheddafi invece, come Ceausescu prima di lui, non ha avuto la stessa fortuna: è stato catturato, pestato, linciato, ucciso a freddo con un colpo in testa e poi esposto al cannibalismo mediatico ed al pubblico ludibrio, perfino dei bambini.

Se la pena di morte può essere intesa come il tradimento, l’antinomia, la contraddizione più autentica dello spirito di giustizia dell’ordinamento giuridico che la contempla, in quanto è lo Stato stesso che compie un omicidio, cioè per ragioni di giustizia compie un delitto legalizzato, ovvero un’altra ingiustizia, l’esecuzione sommaria, in nome della giustizia di popolo ed il più delle volte per mano dello stesso, è un forma di scempio ancora più diretta ed a viso aperto contro la giustizia stessa. Ecco, quindi, che la giustizia di popolo, tradizione cara alla migliore sinistra europea di matrice comunista, non è giusta e non è giusta la logica che sottende il tirannicidio. Eppure, sebbene ascrivibile alla cultura francese di orientamento gauchista, Albert Camus, nelle sue «Riflessioni sulla pena di morte», durissimo pamphlet di esiziale condanna della condanna a morte, scrive che «essa non è meno ripugnante del delitto, e che questo nuovo assassinio, lungi dal riparare l’offesa inferta al corpo sociale, non può aggiungervi che fango »; cosa può dirsi del linciaggio se non che sia ancor peggio della pena di morte?

Certo balza agli occhi l’ipocrisia della comunità internazionale che si muove soltanto adesso, tramite la mobilitazione del commissariato per i diritti umani. Gli Stati Uniti hanno arrestato Saddam e gli hanno garantito comunque un processo, la Francia e l’Europa, la coalizione internazionale per la liberazione della Libia hanno chiuso gli occhi. Il regime dittatoriale libico è finito con l’omicidio del dittatore, ma la nascenda democrazia libica è iniziata con la morte di un uomo: ciò esprime la drammaticità degli avvenimenti di questi giorni. Suscita stupore l'assenza di un giudizio della «cultura politicamente corretta» che regna in Italia, pur così attenta e vigile alla tutela della moralità allorquando si tratti dei costumi sessuali dei politici in genere e dell’attuale Presidente del Consiglio in particolare. In realtà esiste un motivo ben preciso se  da noi si finge di non saperne nulla ed il motivo è storico-culturale.

La legittimazione politica della sinistra (comunista), infatti, per più di un sessantennio si è fondata sulla resistenza al nazi-fascismo il cui acme è stato sempre orgogliosamente rivendicato con i fatti miserevoli di Piazzale Loreto. Come potrebbe una certa parte dell’Italia far la morale ai libici, se non è stata in grado di contenere le pulsioni mortifere della vendetta ideologica? La tragedia libica, ci ricorda troppo la nostra tragedia, nonostante le cortine nebbiogene erette dalla demagogia resistenziale in più di sessant’anni. Il torpore ideologico che la sinistra ha causato all’Italia, non ha fatto effetto fino in fondo. Un minimo di consapevolezza è rimasta superstite: la consapevolezza che la morte del tiranno non è mai giusta e che la giustizia perseguita dal popolo può trasformarsi in una ingiustizia per mano del popolo.

 

Essere liberali.Scritto da:Nicola Giordano

23.10.2011 09:07

Cosa significa liberalismo?

Pare che dialogare sia divenuto impossibile, pare che ogni cosa si attorcigli su se stessa secondo gabbie tematiche costanti. Il ragionamento o l'incontro si infrange sulle nostre chiusure mentali, schemi ideologici da difendere come fossero la nostra identità, senza avvedersi che non comunicando si nega la propria identità. E' vero che dialogare e cercare la verità è "lo sforzo", intellettuale e fisico che le pigrizie mentali ci invitano costantemente a disertare. Occorrono idee, idee sulle quali appoggiare la riflessione, la partenza. Si devono introdurre punti di chiarezza per poterli proporre e forse condividere. Argomenti di chiusura sono facili da strutturare perchè più facili da perseguire e perchè soddisfano quelle pigrizie mentali che ciascuno coltiva dentro di sè. Allora ci si può rifare alla scienza o alla fede per ingaggiare scontri, non inutili ma alimentati dal desiderio di affermare le differenze con lo scontro più che del trovarsi. La scienza non è punto di incontro se usata come grimaldello per lacerare tutto ciò che con essa non si sa raggiungere. La scienza è di pochi ma ciò che indaga è di tutti, tuttavia è un appetitoso posto di potere per chi scienziato non è ed è pronto a tradirla.  "Non potrebbe esservi scienza senza la certezza intuitiva che è possibile cogliere la realtà con le nostre costruzioni teoriche, senza la fede nell'armonia intrinseca del mondo. questa fede è e rimarrà sempre la spinta fondamentale per tutta la creazione scientifica" . Questa fede con la f minuscola rappresenta ciò che tutti possiamo toccare dentro di noi, il senso comune, Questo senso comune non va mai tradito perchè è la rete che ci unisce, è segno dell'armonia tra di noi. Individuare le violazioni significa essere pacifisti, umanisti, colti, leali, coerenti, cosmopoliti, illuminati perchè significa non tradire sè stessi. La direzione in tal senso è spesso indicata dalla fondazione Liberal. La fondazione propone un bel programma ideale :

Sul piano teorico ha sempre visto nel liberalismo americano e non in quello illuministico francese, nella Costituzione di Filadelfia e non in quella giacobina di Parigi, il vero presidio dell’umanesimo liberale e della libertà.
Madison, Jefferson, Tocqueville sono maestri di libertà più sicuri e affidabili che non Rousseau, Saint Just o Robespierre.
L’idea di una ragione con la minuscola, consapevolmente sperimentale e fallibile, strumento di ogni donna e uomo, sorella del buon senso da un lato e della fede dall’altro, ci appare assai più sicura e affidabile di una Ragione con la maiuscola che pretende di ergersi sopra ogni coscienza, avendo nello Stato e nella Scienza i due guardiani assoluti di un potere che inevitabilmente finisce per schiacciare il primato della persona nella società che è l’orizzonte primo e ultimo di ogni pensiero liberale. Conseguentemente, abbiamo sempre apprezzato e apprezziamo la filosofia pubblica americana assai più di quella continentale europea figlia della rivoluzione francese.

L'impegno maggiore è spesso profuso verso l’innovazione nel rapporto tra chi crede e chi non crede. Nel superamento dei vecchi steccati tra cattolici e laici, nel superamento della sindrome di Porta Pia in nome di un nuovo e fecondo dialogo. La nostra consapevolezza è che la vera sfida oggi non è quella tra guelfi e ghibellini, tra clericali e liberali come molti ancora si ostinano a credere. La vera sfida oggi è tra i liberali, cattolici e laici, che ancorano il loro pensiero e la loro azione a un principio di verità e all’idea di un bene comune e tra i non-liberali che viceversa la imprigionano in un vuoto di verità. Che legano quindi la libertà alla liceità che tutto può e dunque, infine, si condannano al nichilismo. Questa è oggi la principale sfida antropologica, culturale, politica.

il mondo laico non è mai stato capace di superare la “sindrome di Porta Pia” restando sempre fermo ad una sorta di conformismo anticlericale ed elaborando, soprattutto dopo gli anni Sessanta del secolo scorso, una sorta di “filosofia progressista dei diritti” secondo la quale il benessere di una democrazia è direttamente proporzionale all’estensione di ogni tipo di diritto individuale considerando priva di fondamento l’esibizione di ogni tipo di diritto legato alla tradizione della comunità o alla salvaguardia della specie. Per noi progresso si dà, invece, quando una società riesce a trovare un soddisfacente equilibrio tra i diritti dell’individuo, quelli della comunità e quelli della specie.

Credo proprio che una proposta  così possa appassionare molti, senza che sentano impoverite o messe a rischio le loro intime convinzioni. Bisognerebbe far morire di invidia coloro che se  ne stanno astiosi ad annusare il proprio fiele.

 

Come cambiare il Mezzogiorno d'Italia.Scritto da:Nicola Giordano

13.10.2011 09:03

Analisi strutturale dei problemi e dei possibili interventi di politiche per lo sviluppo del Sud.

L'inquietante e generale caduta di attenzione nei confronti del Mezzogiorno vede, più o meno inconsciamente, lo stesso Mezzogiorno in buona parte corresponsabile. Se è vero che negli ultimi decenni i trasferimenti dal centro verso le aree tradizionalmente non al passo con lo sviluppo – così come i grandi investimenti pubblici – si sono rivelati ampiamente inadeguati, è pur vero tuttavia che le risorse nazionali, endogene, o europee  sono state in larga parte poco e male utilizzate. Occorre spostare l’attenzione dalle pretese quantitative alla qualità dei risultati prodotti. Il Sud Italia cresce meno, in proporzione alle risorse impiegate, delle altre regioni e qui si annidano tutti i maggiori casi, nazionali ed in parte europei, di inquietante asimmetria trai costi medi dei servizi pubblici e la loro qualità, tra i costi degli apparati amministrativi e la loro efficienza, tra l’impiego di risorse pubbliche a sostegno di processi– spesso solo virtuali – di modernizzazione, crescita, attrazione di investimenti, buona occupazione.La preoccupante  crisi finanziaria in corso rischia, tra l’altro, di provocare effetti peggiori proprio laddove il tessuto economico – produttivo appare più fragile, con conseguenze sociali difficilmente immaginabili e gestibili. Il capitale sociale è ai minimi storici, così come la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, e gli spazi lasciati vuoti dalla buona politica e da un corretto funzionamento del mercato vengono riempiti impropriamente e aggressivamente dalla criminalità organizzata e dalle sue sempre più inquietanti e moderne articolazioni. Una classe dirigente diffusa che, dopo quindici anni, presenti un simile bilancio complessivo rischia di non avere autorevolezza e credibilità per opporsi a scelte,
“anche le più perverse “, che potrebbero riguardare alcune fuorvianti interpretazioni del federalismo fiscale, della destinazione dei grandi investimenti nazionali per le opere pubbliche, dell’utilizzo dei fondi per le aree sottosviluppate, dell’impiego del Fondo Sociale Europeo. Se non si da il senso di
una profonda autocorrezione, dal Mezzogiorno, nelle scelte, nelle pratiche, negli orientamenti, e nelle politiche di governo locale, diviene impossibile il rilancio, in termini culturali e dialettici prima ancora che economici e istituzionali, di una nuova e moderna Questione Meridionale che abbia l’ambizione di parlare all’intero Paese ponendosi anche come grande tema geoeconomico continentale.Per questo occorre rinnovare, nel Sud, le istituzioni, la politica e le classi dirigenti, recuperando uno spirito, una capacità di progettazione, una vocazione realizzativa e stili oggi diffusamente inadeguati Basta con il pigro continuismo, la stanca gestione fine a se stessa della spesa pubblica, la meradenuncia e la proclamazioni di nuovi obiettivi che, seppur giusti e condivisibili, restano sempre inattesi.E’ non rinviabile un radicale cambiamento per scongiurare l’inasprimento del solco che vaapprofondendosi con il resto del paese ed impedire che il Mezzogiorno continui a frenare lo sviluppodell’intero paese. Le questioni principali da affrontare possono essere individuate nelle seguenti: 1.Miglioramento della qualità delle istituzioni per affrontare la questione cruciale della riforma della governance regionale, in grado di assicurare una corretta amministrazione del territorio, una responsabilità fiscale delle autonomie locali, una gestione efficiente dei servizi 2. Contrasto all’illegalità e al sommerso, non solo attraverso le forme tradizionali di repressione, ma migliorando la qualità dello sviluppo economico e sociale per affrontare in modo nuovo e indipendente dalle clientele la scelta e le modalità di finanziamento dei progetti. per contrastare l’illegalità e combattere il sommerso 3. Sostegno al capitale umano per far crescere la responsabilità degli individui e promuovere una crescita economica dal basso, più stabile, duratura e, specie, condivisa. E’ giunto il momento del cambio di rotta perché, tra il nuovo ciclo di spesa 2007 – 2013, l’avvio dei programmi legati alla neonata Unione per il Mediterraneo, la riprogrammazione del FSE e il dibattito sulla territorializzazione della fiscalità, siamo di fronte ad un contesto difficile di azioni e strumenti, nazionali ed europei, che va affrontato con serietà, idee strutturate, scelte politiche precise, competenze. Occorre maturare una visione di insieme della macroregione Mezzogiorno, e da essa farne discendere pochi, integrati, misurabili programmi di sviluppo. Occorre individuare tre – quattro grandi opere infrastrutturali sovraregionali che incrocino le politiche europee dei Corridoi e delle Reti. Puntare sul trasferimento tecnologico e su robuste iniezioni di conoscenza nel processo produttivo, sperimentare strumenti finanziari innovativi che accompagnino sul mercato idee e brevetti, saper attrarre capitali e investimenti puntando sulle eccellenze del territorio, mettere in valore le grandi risorse turistiche, naturali ed ambientali, con un approccio dinamico e competitivo. E’ altresì indispensabile scegliere l’asset Energia e il grande campo della green economy per una storica sfida di riconversione di parti significative del tessuto produttivo locale. E, ancora, occorre stringere sul decollo delle Zone Franche Urbane, mettere in campo il coraggio di produrre robuste riforme degli apparati amministrativi, preparare una vera e propria rivoluzione del settore della formazione professionale affinché vi siano, finalmente, vere e utili politiche attive per il lavoro caratterizzate da qualità, legalità, trasparenza. Altre priorità su cui concentrare l’attenzione: pari opportunità, Agenda di Lisbona, banda larga e innovazione tecnologica, internazionalizzazione: è necessaria una Politica che parli il linguaggio della modernità. Infine: meno regole, ma più stringenti, e automaticità degli incentivi e della maggior parte delle politiche pubbliche contro l’eccessiva e clientelare intermediazione politica.Risulta evidente quindi la necessità di creare maggiori spazi di confronto e riflessione libero da condizionamenti, lontano dalle logiche della ricerca del consenso ad ogni costo, teso ad offrire spunti e contributi ad un Mezzogiorno che non intende rassegnarsi ad un destino di cupo e ineluttabile declino


 

 

 

Quando la giustizia non c'è.Scritto da:Nicola Giordano

09.10.2011 11:22

Chi paga per gli errori commessi?

Le parole  dell’ex guardasigilli Angelino Alfano in seguito alla sentenza di Perugia, che ha ribaltato il primo grado di giudizio, hanno scatenato un putiferio di polemiche. Molti, a cominciare dal vicepresidente del Csm Vietti si sono risentiti. In realtà, il leader del Pdl ha messo il dito in una delle piaghe del sistema giudiziario italiano e questo non è argomento che possa essere confuso con lo spirito di parte né diventare oggetto di diatribe sterili. Anzi, molti professionisti seri, che sentono il peso di tante distorsioni del sistema giudiziario, confermano, infatti, l’esigenza di enucleare i veri problemi senza edulcorare la realtà. Tra molti giudici e magistrati  serpeggia lo scontento, il senso di frustrazione. Uno di questi è certamente Giancarlo De Cataldo, giudice di Corte d’Assise a Roma, autore ben noto con Romanzo criminale e autore di due libri appena usciti che non potevano cadere in un momento migliore, avendo per tema proprio la giustizia italiana: uno è scritto in forma narrativa, si tratta di Giudici (Einaudi), composto di tre racconti firmati oltreché da De Cataldo, anche  da Lucarelli e Andrea Camilleri; il secondo, che è quello che più coglie nel segno delle riflessioni di questi giorni è In-giustizia ( Rizzoli), titolo che è tutto un programma.
Non è un mistero per nessuno che il 53 per cento delle sentenze  sono corrette o ribaltate nei successivi gradi di giudizio; che il 43 per cento dei detenuti è in attesa dei giudizio, come ha denunciato Pannella; e che il 50 per cento di essi che, secondo statistiche, saranno proclamati innocenti: questo il curriculum deprimente che pesa come un macigno sulle storture della giustizia e sulla vita delle persone. E fare finta di niente e polemizzare contro chi con cognizione di causa stigmatizza il dramma che nessuno paghi per gli errori commessi, non ci aiuterà a migliorare lo stato di salute della giustizia.  Se in altri paesi chi ha indagato in maniera inappropriata o condannato innocenti non vivrebbe momenti di grande tranquillità, da noi invece sì, perché i giudici non sono penalmente resposabili degli errori commessi e delle vite stravolte. Ecco, proprio il fattore umano è infatti centrale in In Giustizia, saggio in cui De Cataldo non intende certo proporre bacchette magiche. Si direbbe un giudice rassegnato? Il titolo è del resto molto eloquente. Dobbiamo convivere con una giustizia “ingiusta”? Non proprio. «Questo è il libro che ho cullato per trent’anni», ha avuto modo di raccontare l’autore.«È il libro della mia vita da magistrato e di un po’ di storia d’Italia vissuta da dentro i tribunali, raccontata attraverso le vicende esemplari di chi ha sbagliato, di chi ha lottato, di chi si è difeso e di chi è stato condannato». Un’esigenza di raccontare questo mondo che viene da molto lontano, dunque.
La sua “bussola” è che «la giustizia è un’aspirazione, una conquista quotidiana. Non si può mai darla per scontata. Bisogna lottare di continuo per realizzarla», ha premesso durante le presentazioni del volume che ha il sapore del work in progress, realizzato sulle esperienze di una vita in toga. Non nasconde, naturalmente, i difetti di un sistema e in particolar modo viene messo in luce il ruolo dei magistrati nei farraginosi e complessi ingranaggi della macchina della giustizia nel nostro Paese. Lo fa descrivendo la cronistoria giudiziaria di alcuni casi emblematici degli ultimi anni: dal caso Sofri a quello di Marta Russo, per finire ai casi complessi della banda della Magliana. In questo modo il magistrato è in grado di mostrarci i meccanismi perversi del nostro sistema giudiziario. E proprio attraverso la messa a nudo della realtà è possibile eventualmente capire a che punto siamo arrivati e verso dove dobbiamo dirigerci.

 

Analisi del Liberalismo e del Conservatorismo nell'Italia di oggi.Scritto da:Nicola Giordano

05.10.2011 08:32

Nella politica italiana il termine “conservatore” non solo non è amato, ma è usato spesso come un insulto da rivolgere alle sinistre, ai sindacati, a chi si oppone in genere al riformismo del governo Berlusconi. Tuttavia che il nostro centrodestra sia legato in qualche modo alla famiglia conservatrice lo attesta la presenza del Pdl nel gruppo popolare (e non, ad esempio in quello liberaldemocratico) e l’interesse mostrato verso partiti conservatori che pure non fanno parte di questo, vedi i Conservatives britannici o i Repubblicani americani.

A dire il vero, questo interesse non è particolarmente mostrato da Berlusconi, a suo agio tanto con Bush quanto con Obama, tanto con Cameron quanto con Blair, tanto con Aznar quanto con Zapatero. Nella retorica del nostro premier essi sono infatti tutti “liberali”, famiglia onnicomprensiva entro la quale da sempre si colloca Berlusconi, che considera “liberale”persino Putin, con orrore di tutti gli autentici liberali di casa nostra e non. Ciò interessa a Berlusconi per additare il suo nemico politico, il centrosinistra italiano, di illiberalità. Per Berlusconi, infatti, il PD è solo un partito postcomunista indegno di sedere tra le socialdemocrazie contemporanee e il Pdl un rassemblement non di centrodestra, né tanto meno dei conservatori, ma di tutte le forze “liberali, moderate e riformiste” che potrebbero soccombere in caso di una vittoria dei postcomunisti.

Questa visione berlusconiana, funzionale solo alla propaganda politica (uguale e contraria all’uso del vecchio PCI di bollare come “reazionarie” tutte le forze non comuniste), non è necessariamente fatta propria dai think tanks che lo supportano e che hanno alle spalle una cultura politica piuttosto delineata. Tra questi think tanks quelli che hanno mostrato maggior interesse verso il pensiero e l’azione politica dei conservatori occidentali sono stati Magna Carta (Pera, Quagliariello) e quel gruppo di finiani che fa capo a Italo Bocchino. Con delle importanti differenze, vediamo quali.

Magna Carta si fa portavoce di un liberalismo attento ai valori e alla tradizione del cattolicesimo. E’ per definizione, accettata da Quagliarello & Co., volta alla riscoperta di un liberalismo conservatore di marca anglossasone e prevalentemente americana, liberale in economia e cristiano sui temi etici.
Sul fronte degli ex Alleanza Nazionale si sono confrontati per un po’ due forme ulteriormente diverse di conservatorismo. Un conservatorismo “comunitarista” antiliberale, figlio della tradizione romantica europea e in parte anche del fascismo, e un “nuovo” conservatorismo fortemente liberale anch’esso europeo, non liberista, in linea con le tendenze contemporanee dei vari Aznar, Sarkozy e Cameron. Il primo, per anni identificatosi politicamente in Alemanno, sta oggi con Berlusconi; il secondo, invece, si è legato a Gianfranco Fini.

Che rapporto hanno questi “conservatorismi” con la tradizione italiana?

I berlusconiani, grazie anche alla stretta vicinanza con Lega e ambienti cattolici tradizionalisti, tendono sempre più a voltare le spalle alla storia risorgimentale. Si rifanno così ad una tradizione più antica ma non unitaria, che se può essere una forza sul territorio locale non è spendibile sul piano nazionale e impedisce al centrodestra di assicurare quella coesione sociale e nazionale che dovrebbe essere il suo primo impegno politico.
Dal canto loro i finiani si ricollegano apertamente al Risorgimento, per quanto non esplicitamente alla destra storica, né provano alcuna nostalgia per la casa Savoia. E questo, lo si vede bene, è assai paradossale. Se infatti si preferisce Mazzini a Cavour, e il repubblicanesimo alla monarchia, si è forse molto “contemporanei” ma assai poco “conservatori”. Ed infatti il tallone d’Achille di questo “nuovo conservatorismo” finiano è l’esaltazione del nuovismo ai danni principalmente del conservatorismo stesso (cosa che non accade per nulla in Cameron o Aznar, tanto per dire).

Questa situazione curiosa che vede in Italia un conservatorismo (o una “destra”) privo di una tradizione che lo legittimi anche dinanzi agli avversari (che infatti attaccano l’anomalia del berlusconismo e non nello specifico una politica “conservatrice” o “di destra”) è dovuta anche alla marginalizzazione dell’unico soggetto politico non di sinistra legato ad una cultura politica storica e tuttora vitale: l’UDC.

Diversamente dai cattolici tradizionalisti che hanno un riferimento nella reazione antirisorgimentale, i democratici cristiani, pur essendo nati nel Novecento con Sturzo e De Gasperi, si rifanno apertamente alla storia unitaria e liberale italiana e nel dopoguerra, per cinquant’anni, hanno rappresentato con la DC la stessa funzione che ha avuto in Germania la CDU, ovvero l’opposizione di centro ai governi socialdemocratici. Un opposizione pragmatica e non preconcetta che in taluni casi poteva dar vita a governi di coalizione, ovvero di salute nazionale. Come in Germania, anche in Italia nell’alveo centrista democristiano albergava una corrente apertamente riformista e un’altra più decisamente conservatrice. Infatti, non sempre in Occidente il conservatorismo si identifica in un partito, più spesso è solo una corrente interna a partiti a vocazione centrista.

Dunque, se esiste davvero una tradizione conservatrice italiana, questa non può prescindere dalla storia della Democrazia Cristiana e dal suo parziale recupero della vicenda risorgimentale identificata nello specifico in Cavour. Così, ci pare a noi, non dovrebbe prescindere da quella parte moderata del nostro establishment borghese rappresentato ad esempio dal Corriere della Sera e da opinionisti quali Romano, Galli della Loggia, Panebianco, Ostellino, etc.

Scegliere, di contro, di innestare una destra politica sulla tabula rasa, come è successo con l’azione politica di Silvio Berlusconi, può essere funzionale magari ad una “rivoluzione liberale”, com’era previsto da alcuni agli esordi, ma non certo propedeutica ad una politica di stampo conservatrice. Con Berlusconi persino il Giornale, lo storico organo d’informazione dei conservatori italiani, ha negato la linea montanelliana, liberale e moderata, per il populismo aggressivo di Belpietro e Feltri.

Senza una storia, un passato, una tradizione, si possono fare al limite delle riforme liberali, ma non può instaurarsi una cultura politica conservatrice. Per la semplice ragione che senza eredità non può esservi alcuna conservazione. I veri conservatori ci facciano un pensiero.


 

Troppe similitudini tra Destra e Sinistra.Ne beneficiano i partiti minori.Scritto da:Nicola Giordano

03.10.2011 15:59

Se in tutta Europa i partiti di massa, sia di destra che di sinistra, al governo e all'opposizione, crollano nei consensi e prendono meno voti di un tempo è anche per il cambiamento del lavoro, con i sindacati che non incanalano più le preferenze come un tempo, e per il relativismo che domina le società.

                    

 

Hanno fatto sensazione gli ultimi sondaggi sulle intenzioni di voto degli italiani: i vari istituti sono concordi nel far notare che l'erosione del Popolo della libertà, primo partito del paese alle elezioni del 2008 ma anche alle Europee del 2009, prosegue, ma il Partito Democratico, secondo partito più votato nelle due elezioni suddette, non ne beneficia. A crescere sono i partiti minori anti-sistema: Italia dei Valori, Sinistra e Libertà e Movimento Cinque Stelle. Pdl e Pd, che alla Camera nel 2008 avevano raccolto rispettivamente il 37 e il 32 per cento dei voti, oggi sono dati entrambe attorno al 26 per cento e poco più. Il voto sommato dei primi due partiti scenderebbe cioè dal 70 per cento di tre anni fa al 52-53 per cento di oggi: 17-18 punti percentuali in meno. Quello che pochi fanno notare è che lo sfaldamento dei principali partiti non è un tratto specifico del panorama politico italiano, ma un tratto comune alla maggior parte dei paesi europei.

Elezioni locali e nazionali negli ultimi due anni si sono risolte quasi sempre in Europa in sonore sconfitte delle forze di governo, a prescindere dall'orientamento ideologico della coalizione al potere: nel Regno Unito, in Portogallo e in Ungheria i conservatori hanno sloggiato dal potere i progressisti, in Olanda e in Danimarca è successo il contrario; pesanti passi indietro nelle elezioni regionali o municipali o senatoriali li hanno sofferti i partiti del primo ministro o del capo dello Stato in Francia, Spagna, Italia e Germania. Ma il fenomeno più significativo appare essere l'avanzata delle forze populiste o radicali di destra e di sinistra. Più spesso di destra: l'anno scorso alle politiche olandesi il Partito per la libertà di Geert Wilders, apertamente anti-islamico e anti-immigrazione, è balzato dal 5,9 per cento del 2006 al 15,5; quest'anno in Finlandia il Partito dei Veri Finlandesi si è classificato terzo col 19,1 per cento dei voti, a un'incollatura dai partiti di centrodestra e centrosinistra tradizionali, mentre alle precedenti elezioni aveva ottenuto solo il 4 per cento.

Il fenomeno viene da lontano, non è stato generato dalla crisi economico-finanziaria innescata nel 2008: in Germania democristiani e socialdemocratici, sommati insieme, sono scesi dal 76 per cento del 1998 al 56,5 del 2009, in Olanda la somma del centrodestra e del centrosinistra tradizionali è scesa dal 66 per cento del 1989 al 40 per cento dell'anno scorso; e persino nel paese considerato la patria europea del bipartitismo e dell'alternanza, il Regno Unito, la somma dei voti del Partito conservatore e di quello Laburista è scesa dal 76 per cento del 1992 al 65 dello scorso anno. A cosa si deve questa erosione senza soste dei partiti di massa a favore di nuove forze politiche la cui identità ideologica e i cui programmi appaiono molto eclettici? La causa più citata dai politologi è la crisi della formula dell'alternanza, logorata prima dalla fine della Guerra fredda e dal collasso dei paesi del socialismo reale, poi più recentemente dalla crisi economico-finanziaria.

Dopo il tramonto del dirigismo economico e la vittoria dell'impostazione liberista, le politiche economiche dei governi di destra e di sinistra sono diventate simili in tutta Europa. Contenere la spesa pubblica e stimolare la crescita attraverso liberalizzazioni e privatizzazioni è diventato un mantra che ha coinvolto anche partiti di sinistra come i laburisti britannici o le socialdemocrazie scandinave. La differenza principale fra centrodestra e centrosinistra è sembrata essere quella relativa ai nomi degli imprenditori e dei gruppi favoriti nelle privatizzazioni. Dopo il 2008, le politiche di austerità divenute obbligatorie nei paesi dell'euro, come anche in quelli che hanno ancora una loro moneta, risultano singolarmente simili, che si tratti del governo conservatore di David Cameron a Londra o di quello socialista di George Papandreou ad Atene. Le condizioni erano poste perché cominciasse a diventare popolare una nuova idea: che al concetto di alternanza andasse contrapposto quello di alternativa, possibile solo scartando le forze principali. Destra e sinistra si assomigliano troppo, perciò non basta più cambiare i politici al governo: per cambiare le politiche davvero, bisogna guardare altrove.

Altre spiegazioni puntano di più sulle trasformazioni della società: le forme del lavoro e dell'impresa sono molto cambiate dai tempi dell'economia industriale post-bellica; i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori, che fino a ieri rappresentavano la quasi totalità di questi mondi e che risultavano storicamente vincolati ai partiti politici di massa, nell'economia globalizzata e nel mondo delle mille forme di lavoro di oggi non svolgono più quel ruolo di canalizzazione del voto popolare verso i grandi partiti come accadeva un tempo. A un mondo della produzione e del lavoro sempre più differenziato, complesso e non sindacalmente rappresentato corrisponde uno sfarinamento della rappresentanza politica. Sul piano più culturale, si può aggiungere che relativismo e individualismo hanno diffuso l'idea che le appartenenze deboli e cangianti, le identità a pelo d'acqua disponibili a modificarsi nel corso della vita, siano in sé un valore, un segno di vitalità e un'espressione di libertà. La frammentazione del panorama dei partiti - con la relativa crescente difficoltà di garantire la governabilità - è la logica conseguenza politica dell'egemonia culturale del relativismo post-moderno.


 

 

L'Editoriale del Direttore

Cari Blogger,diffamare non è informazione.Scritto da:Nicola Giordano

01.10.2011 08:26

Il ddl Alfano impone l'obbligo di rettifica entro 48 ore dalla richiesta.Dov'è il bavaglio?

"Legge bavaglio: ci riprovano. Fermiamoli di nuovo". Questo il testo, vergato su un simbolico post-it, della protesta che corre sulla rete. Tra le varie norme contenute nel disegno di legge Alfano sulle intercettazioni, infatti, ci sono alcune righe che potrebbero andare a colpire milioni di blog italiani, già comparse nella prima stesura del provvedimento e nelle sue ulteriori riproposizioni, e tornate d'attualità in questi giorni. Si tratta esattamente dell’articolo 1, comma 29: “Per i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”.

Dunque, basta una richiesta (fondata o meno) perché un portale online sia obbligato a rettificare entro 48 ore. L’hanno chiamata “norma ammazza blog” e l’avvocato Guido Scorza, esperto nel settore web, ha calcolato che i blogger rischierebbero fino a 12.000 euro per difendere la loro libertà di parola: «Imporre un obbligo di rettifica a tutti i produttori non professionali di informazione, significa fornire ai nemici della libertà di informazione una straordinaria arma di pressione, se non di minaccia, per mettere a tacere le poche voci fuori dal coro».

Oltre cento tra associazioni, blogger, gruppi di attivisti in rete e politici sostengono che la misura non solo mette un bavaglio alla libertà di espressione sulla Rete, ma accosta ingiustamente blog individuali a testate registrate, equiparando dunque opinioni personali a editoria vera e propria. E non ultimo tocca pesantemente le finanze di chi si rifiuta di rettificare quello che ha ritenuto di pubblicare. In effetti, il comma è formulato in modo tale da non fare alcuna distinzione esplicita tra un giornale online e un sito personale. Ma la minaccia di sanzioni b è davvero un’arma sproporzionata? E cosa cambierà?

Secondo Massimo Mantellini, storico blogger e noto esperto di Internet e nuove tecnologie, per moderare i rischi di eccessi diffamatori sarebbero più idonei strumenti efficaci di confronto e correzione di errori e falsità eventuali, da associare ai mezzi legali che già esistono. Fatta questa doverosa precisazione, Mantellini invita sommessamente a mantenere la calma: «Il comma sull’obbligo di rettifica non è una norma che spegne la rete italiana, non è un decreto ammazza-blog come in molti in questi giorni stanno ripetendo». Come spesso accade, «la rete si mobilita e viene invitata a farlo con tutto il solito corteo di indignazione, rimandi, passaparola, sticker da appendere sul proprio blog, pagine su Facebook». Dentro questa mobilitazione c’è un po’ di tutto: «I molti autenticamente preoccupati, i professionisti dell’indignazione, i tanti che sfruttano il tema per ragioni di opposizione politica». Ma soprattutto «c’è un riflesso condizionato che io trovo ogni volta più pericoloso: ad ogni vaneggiamento grande o piccolo, del legislatore o del magistrato, dell’esponente politico o del commentatore Tv si risponde sempre e comunque con la mobilitazione generale e con grandi significative semplificazioni del contesto. La misura della protesta è sempre più spesso la quantità e non la qualità, i toni urlati e non il ragionamento e questo metodo di lotta e di contrapposizione ai cattivi-che-vogliono-chiuderci-Internet trasforma tutto in un teatrino prevedibile e usuale».

 

 

L'Editoriale del Direttore

Costituzione...lentamente,ma cambiamola!Scritto da:Nicola Giordano

 

17.09.2011 22:30

Via libera immediato alla proposta per la bozza Calderoli di riforme costituzionali che prevede, tra l’altro,la riduzione o il quasi dimezzamento dei parlamentari. Il Consiglio dei ministri a sorpresa dichiara l’urgenza del provvedimento per poter trasmetterlo alle Camere. Il testo è quello approvato dal Consiglio dei Ministri dello scorso 18 luglio: in quel caso fu varato con la formula «salvo intese» nella maggioranza, intese che sono state faticosamente trovate.

La bozza presentata dal ministro Roberto Calderoli, oltre al taglio dei parlamentari, prevede la nascita del Senato Federale e la cancellazione della circoscrizione estero. La procedura d’urgenza fa sì che il provvedimento sia immediatamente inviato ai due rami del Parlamento per dare il via al percorso legislativo. Ci vorrà poco più di un anno perchè la bozza divenga legge, come ben sa lo stesso Calderoli al termine della riunione dei ministri a Montecitorio. «La volta scorsa per varare la riforma costituzionale impiegammo 13-14 mesi, ora gli articoli sono di meno ma i tempi dovrebbero essere gli stessi», spiega l’esponente della Lega.

Calderoli sottolinea poi che «sono già stati avviati contatti con i presidenti delle Camere per assegnare il testo alle commissioni competenti». «Alla prima commissione della Camera – aggiunge – dovrebbe andare il provvedimento sulle province; a quella del Senato invece la riforma complessiva». Quanto al dialogo con l’opposizione – afferma l’esponente leghista – «per il momento abbiamo trovato un accordo in maggioranza; appena il testo sarà presentato alle commissioni ne parleremo anche con l’opposizione. Dateci il tempo di presentarlo». Il testo prevede che il Senato federale sia composto da 250 senatori (attualmente sono 315). Viene «eletto a suffragio universale e diretto su base regionale». Ai suoi lavori partecipano «senza diritto di voto, altri rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali» e si potrà essere eletti senatori al compimento dei 21 anni.

Il testo sostituisce integralmente l’articolo 59 della Costituzione e trasforma gli ex capi di Stato da senatori a ‘deputati’ a vita. Cancella anche la figura dei cinque senatori a vita che ad oggi il presidente della Repubblica può scegliere. Il Presidente del Consiglio diventa “primo ministro”, mentre le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente della Camera dei deputati.La sola Camera vota la fiducia al governo. E può votare una sfiducia costruttiva, con indicazione di un nuovo premier. Ma sempre nell’ambito della maggioranza che ha vinto le elezioni. Viene introdotto però un meccanismo anti-ribaltone che vincola anche il capo dello Stato. Il Governo, infine, può accelerare sui disegni di legge: se ne dichiara l’urgenza, le Camere dovranno votare entro 30 giorni (più in fretta di un decreto). In ogni caso per le pdl i regolamenti indicheranno”tempi certi”. Strada sbarrata al proporzionale puro. Il testo prevede che la legge elettorale della Camera debba “favorire” la formazione di una maggioranza dotata di una certa stabilità politica,cosa a cui spesso non conduce il sistema proporzionale.

Insomma è evidente come le novità costituzionali siano di indubbia modernità e sotto alcuni aspetti necessarie in virtù della struttura sostanzialmente vetusta e anti-autoritaria della nostra “Magna Carta”.Una Carta che,è bene ricordarlo,fu elaborata nei mesi immediamnente successivi alla caduta del regime fascista e che per forza di cose risente dei limiti e delle procedure allora introdotte per scoraggiare qualsivoglia concentrazione di potere.Ma l’impianto della Costituzione necessita di una “rispolverata”:il numero dei deputati va giustamente diminuito,il Parlamentarismo perfetto è oramai solo un inutile ostacolo ai percorsi legislativi,l’affermarsi delle Regioni come veri e proprio organi anticamera dello Stato centrale,esige una apposita Camera di collegamento in cui la voce e la volontà stessa delle Regioni trovi sbocco (visto la sempre più inutile presenza delle Conferenze Stato-Regioni) e poi la figura del Presidente del Consiglio che per rigurgito anti-fascista fu ridotto dalla Carta a una figura “inter pares” con gli altri ministri,ma che invece necessità,anche per le responsabilità che ricopre,di maggiori poteri sia decisionali che d’impulso.Per non parlare dello strapotere della Magistratura,unico potere della nostra Costituzione a non prevedere contrappesi e bilanciamenti e che andrebbe rivoltata di netto e radicalmente modificata anche nei suoi rapporti col potere politico;ma che la riforma di cui sopra ancora non prevede,forse già paventando tumulti e ribellioni in seno al Csm e alla sempre più folta schiera dei giudici politicizzati (Ingroia e De Magistris docet).Quindi il “lifting” costituzionale è partito,speriamo in un’opposizione conciliante e collaborativa e che non aizzi,come spesso,accade la gente in piazza o i giovani sui blog di tutta la rete al grido di ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE,grido che troppe volte ha impedito alla nostra tanto vituperata Italia di diventare un paese migliore e moderno,oggi a più di sessantenni dalla nascita del nostro Stato democratico.   Autore:Nicola Giordano