Libri

LA CASA SOPRA I PORTICI di Carlo Verdone

29.03.2012 19:47

Un biografia appassionata tra malinconia e risate.

Dopo essere giunto al cinema con il film Posti in piedi in paradiso, Carlo Verdone approda anche in tutte le librerie con La casa sopra i portici. Si tratta, in particolare, di un romanzo biografico in cui l’apprezzato attore e regista italiano decide di condividere con i suoi fan i ricordi del suo passato, quelli che raccontano i giorni in cui ha vissuto nella casa paterna, La casa sopra i portici, appunto.Chi ha già avuto modo di leggere La casa sopra i portici di Carlo Verdone ne è rimasto entusiasta: lo stile narrativo fluido e suadente dell’autore, riesce a coinvolgere il lettore sin dalle prime pagine.

Il libro, inoltre, si legge d’un fiato e regala ai lettori emozioni intense.Con l’ironia tipica che lo caratterizza, Carlo Verdone racconta ai suoi lettori, per esempio, gli eventi più importanti che nel corso della sua infanzia e della sua adolescenza sono stati organizzati tra le mura della sua casa paterna: feste, incontri con registi famosi come Federico Fellini e Alberto Sordi, incursioni di personaggi unici, come Gregory Markopoulos e tanti altri.Ne La casa sopra i portici, comunque, Carlo Verdone si sofferma anche sull’aspetto più intimo e umano, quello riguardante i sentimenti e il rapporto con i suoi familiari: i genitori e i fratelli, per esempio.

C’è ampio spazio per le emozioni, quindi, tra le pagine del romanzo biografico di Carlo Verdone; anche perché l’attore sceglie di non tenere nascosto nulla e di parlare anche dei momenti dolorosi, dei primi amori e di tutte quelle esperienze ed emozioni che lo hanno reso l’uomo che è.La casa sopra i portici, in particolare, è il romanzo ideale per tutti gli appassionati di Carlo Verdone; un libro in cui l’autore sceglie di mettere a nudo il suo spirito aprendo ai lettori la porta dei ricordi della sua casa sopra i portici.Per dovere di cronaca bisogna ricordare che questo non è l’esordio letterario di Carlo Verdone, già approdato sugli scaffali nel 1999 con Fatti Coatti (o quasi), anche quella una sorta di biografia scritta a quattro mani con Marco Giusti.

La casa sopra i portici torna a scandagliare quindi nel passato di uno dei personaggi più amati e riconosciuti del cinema (ma anche della televisione) nostrana, senza pretese di stile ma con una scrittura lineare e coinvolgente che i suoi fan non tarderanno a riconoscere.Si parte come prevedibile dalla giovinezza, dove i grandi eventi sono scanditi e accompagnati dalla casa paterna, in qualche modo grande protagonista dell’intera storia. Dall’incontro con Vittorio De Sica al rapporto con i genitori e i fratelli, dalle prime esperienze sentimentali ai drammi famigliari. C’è spazio per l’ironia ma anche per i toni più malinconici, come in tanti suoi film di successo.

E a proposito di film, non poteva certo mancare il cinema in questo libro. Dai primi passi al Centro Sperimentale sotto la guida di Roberto Rossellini al racconto dei suoi film, ricco di retroscena e aneddoti inediti.Grande spazio viene dedicato anche alle amicizie che hanno segnato la vita di Carlo Verdone, da Sergio Leone a Federico Fellini passando per Massimo Troisi. Non manca neanche la musica, secondo grande amore dell’attore: i primi concerti di Beatles e The Who, gli incontri con David Bowie, David Gilmour e Led Zeppelin. Un ritratto intimo e divertente che farà la gioia di quanti adorano il regista romano

 

                                                                                                          VOTO 6.5

 

DELL'AMORE E DI ALTRI DEMONI di Gabriel Garcia Marquez

25.02.2012 12:50

Una storia sospesa tra sogno e dolore.

Sullo sfondo il mare dei Caraibi, dove il cristianesimo si scontra con le lingue e i riti religiosi yoruba degli schiavi, ai tempi dell'Inquisizione del Santo Uffizio. L'amore e l'odio, nelle loro variegate declinazioni, si manifestano e si confondono con la follia, il dolore, la speranza, la rabbia (come stato emotivo, ma anche come malattia trasmessa dai cani infetti), dilaniando la mente e il corpo dei protagonisti. I sintomi vengono interpretati dal vescovo e dalla badessa delle Sepolte Vive come sintomi satanici e si preparano le indagini per gli esorcismi. I confini sbiadiscono, la ragione può anche essere una gabbia per la mente (lo dice il medico ateo Abrenuncio!). L'amore nella sua forma più pura è un vero e proprio demone, che non può essere scacciato e solo la morte renderà conforto alle povere anime.

Sierva Maria de Todos los Angeles, una dodicenne indemoniata (o presunta tale) e Cayetano Delaura, l’esorcista che dovrebbe liberarla dalla possessione, vivono una singolare, grottesca, drammatica storia d’amore sullo sfondo di una città di mare, in un’epoca e un luogo indefiniti dell’America centrale dei secoli scorsi (XVIII o XIX secolo?).
Basterebbero queste poche indicazioni della trama per riconoscervi immediatamente alcuni elementi fondamentali della narrativa dell’autore, incentrata, fin dall’esordio con Cent’anni di solitudine, sulla rappresentazione di un mondo fantastico e onirico, estremo, irrazionale e contraddittorio, fatalista e rassegnato, oscurantista ma anche in qualche modo nostalgicamente rievocato e rimpianto, che diviene sintesi di una cultura e dell’anima della società centro e sud americana, con il suo singolare misto di tradizioni, di razze, di religioni e di lingue che la caratterizzano. Pur non avendo un posto oggettivamente indiividuabile né nella geografia né nella storia del subcontinente, le città, i personaggi e le vicende dei romanzi di Marquez ne colgono le costanti e lo spirito più di mille trattati di sociologia, dando vita a un microcosmo parallelo e metastorico per definire il quale la critica ha coniato la fortunata etichetta di realismo magico.
L’apporto che Dell’amore e di altri demoni dà al dispiegarsi di questo universo narrativo è virato al grottesco e al macabro con maggior intensità rispetto alla restante produzione dell’autore. Non una storia corale ed epocale come in Cent’anni di solitudine, non una “normale” vicenda d’amore eccezionale come in L’amore ai tempi del colera, non un teorema fatalista sviluppato fino alle sue estreme conseguenze come in Cronaca di una morte annunciata: ciò che prevale in questo romanzo è la ricerca sistematica del paradosso stridente, che si manifesta già nel titolo (l’associazione dell’amore alla dannazione, un vero e proprio topos della letteratura di tutti i tempi, qui declinato nella sua variante magico-realistica) e si incarna innanzitutto nella coppia dei protagonisti, che intrecciano un amore impossibile sopra l’abisso delle loro opposizioni (bambina-adulto, indemoniata-esorcista, paganità-cristinità, carnalità-spiritualità), per poi ritrovarsi moltiplicato in pressoché tutti gli elementi (primari o marginali che siano) della trama: dalla figura del marchese padre di Sierva Maria a quella di Bernarda, moglie di lui e madre della bambina, dalla personalità del vescovo, guida spirituale e protettore prima, severo persecutore poi di Delaura, alle torve e degeneri monache del convento di clausura dove l’indemoniata viene rinchiusa, per arrivare fino alle comparse dei servi, degli amanti, dei medici che ruotano attorno ai personaggi principali e fanno loro da contorno: tutti sono caratterizzati dal coincidere nella loro personalità e nella loro condotta di connotazioni opposte e antitetiche, quasi l'ostentazione della contraddittorietà fosse il programma che l'autore si è proposto. Ne esce un quadro fosco e polarizzato sugli estremi, che sembra configurarsi come maniera (nel senso che il termine ha come categoria estetica) rispetto all'ispirazione e alla restante opera dell'autore, cosicché la rigogliosità, l'abbondanza e la bizzarra originalità delle invenzioni narrative finiscono per essere apprezzabili più nei dettagli a margine della storia che nelle figure dei protagonisti.

La storia il soggetto, le parole i suoi colori, Marquez non scrive, Marquez dipinge nelle menti dei lettori i sogni che la sua mente partorisce.
Maestro di prosa, in questo racconto Marquez dimostra una proprietà di linguaggio (grazie anche all'ottima traduzione)e una vena poetica particolrmente spiccate, non lascia nulla al caso e la sua capacità di essere dettagliato con pochi termini lo porta veramente nel olimpo.
Il racconto di per se è ai confini della realta,burattinaio della dimensione onirica, si muove tra sogno e realtà lasciando il lettore avvolto in una cappa di mistero e curiosità.
Resta comunque un testo intenso, e affascinante e ricco di piacevolezze linguistiche che si mischiano hai contenuti del testo come lo zucchero nell' acqua .
Nulla più si può dire su un testo che sia per lunghezza che per linguagigo e trama trovo ineguagliabile
La storia lascia il segno, tra clausura, amori platonici,feroci demoni, vizzi, e inquisizione porta alla fine del romanzo pronto a ricominciarlo in qualsiasi momento.

 

                                                                    VOTO  8

 

LE PERFEZIONI PROVVISORIE di Gianrico Carofiglio

26.01.2012 11:54

La rinascita del noir italiano.

"Ha detto qualcuno che gli uomini si dividono nelle categoriedegli intelligenti o dei cretini, e dei pigri o degli intraprendenti, Ci sono i cretini pigri, normalmente irrilevanti e innocui, e ci sono gli intelligenti ambiziosi, cui possono essere assegnati compiti importanti, anche se le più grandi imprese, in tutti i campi vengono quasi sempre realizzate dagli intelligenti pigri. Una cosa però va tenuta a mente: la categoria più pericolosa, da cui ci si possono aspettare i più gravi disastri e da cui bisogna guardarsi con la massima circospezione, è quella dei cretini intraprendenti."

Il ritorno di Guido Guerrieri, avvocato e simpatico protagonista di tante storie che Gianrico Carofiglio ha regalato ai suoi tanti lettori, è di sicuro una piacevole sorpresa. Ma questo personaggio, non proprio fortunato in amore, appassionato di pugilato (niente di meglio per rilassarsi che tirare qualche pugno al sacco!), amante di solitarie passeggiate serali e del tutto indifferente ai pregiudizi e alle ipocrisie in amicizia, piacerà subito anche ai nuovi lettori del magistrato barese.

La vicenda di Le perfezioni provvisorie esula dalla normale attività di avvocato, è qualcosa che si avvicina di più al compito di un investigatore e quando Guerrieri se ne fa carico, dopo parecchi tentennamenti, non può non sentirsi un po' eroe letterario o il classico detective da film: sempre con ironia, naturalmente.

Una ragazza, Manuela è sparita nel nulla dopo un fine settimana trascorso con gli amici e dopo aver comprato un biglietto del treno per rientrare a Roma dove frequenta l'università. Il caso irrisolto - inutile anche il passaggio a Chi l'ha visto? - vecchio ormai di qualche mese, sta per essere archiviato. È proprio questo il motivo per cui i genitori della ragazza si recano da Guerrieri e lo pregano di prendersi carico della vicenda, trovando nuovi elementi e impedendo che la sparizione inspiegabile di loro figlia diventi uno dei tanti casi dimenticati.

Molti i tentennamenti, ma un po' alla volta il nostro avvocato inizia ad appassionarsi al caso e a vedere delle incrinature nei riscontri, nelle testimonianze, nei fatti. Questo è il caso conduttore del romanzo, ma Guerrieri ha tra le mani altri casi, altri processi, altri imputati da difendere. Così, in modo garbato e leggero, veniamo a conoscenza di altri delitti, di altri processi, di altri imputati, ognuno con la sua storia di vita, le sue colpe e le sue attenuanti.

La maestria di Carofiglio, non è necessario ripeterlo, è davvero grande: sa tracciare personaggi e storie in poche pagine, con poche parole. Certamente possiede in pieno la materia giuridica e di certo ha memoria di tanti casi che nella sua professione ha dovuto esaminare, ma è lo scrittore Carofiglio più che il magistrato, che si ammira in ogni romanzo.

Tornando alla scomparsa di Manuela, l'inchiesta che Guerrieri compie e le persone che interroga, così come gli amici o le amiche che incontra, sono una vera passerella di personalità, corpi e caratteri delineati con un'acutezza davvero rara.
Nadia, l'amica ex prostituta è tanto rispettosamente presentata a dimostrazione di quanto uno scrittore possa servire per "educare" un lettore.
C'è un nome che aleggia nell'aria, è l'ex fidanzato di Manuela, un violento e un cocainomane, ma ha un alibi di ferro, era in Croazia al momento della scomparsa. Si inizia però a fare della cocaina un elemento narrativo...

La vita di Guerrieri, oltre l'indagine, prosegue normalmente tra conversazioni con l'amica Nadia, riflessioni solitarie, ricordi piacevoli e non, citazioni da film che sintetizzano ciò che sta attraversando, nuove e impreviste sollecitazioni... E un'illuminazione finale, del tutto imprevedibile e casuale: la verità emerge con tutta la sua durezza.
Certamente Carofiglio non ha bisogno di conferme, non delude mai i lettori, ma si può semplicemente constatare che ci si trova di fronte a un ottimo creatore di storie dotato di una padronanza stilistica rara.


 

 

IL VINCITORE E' SOLO di Paulo Coelho

29.11.2011 12:52

Un intimo noir in puro stile Coelho.

Questa volta, lo scrittore di Rio de Janeiro, ha deciso di pubblicare qualcosa di diverso rispetto al suo genere, un libro che si allontana dal solito stile orientato ai temi spirituali. Anche se non lascerà perplessi i suoi lettori che lo seguono da tanti anni con passione, perché resta comunque fedele al suo modo di raccontare le storie.

“Il vincitore è solo” è un noir, un racconto intrigante. Il protagonista Igor è un uomo affascinante e ricco, ma queste qualità non bastano alla donna della sua vita. La sua ex moglie, infatti lo ha lasciato per stare con un famoso stilista. Igor, però, non ci sta a perderla così senza neanche cercare di riconquistarla, ma il modo in cui lui cerca di riportarla a sé non è quello che comunemente utilizzano gli amanti.

 

Lui non prova a farla innamorare nuovamente dell’uomo che è, non usa atteggiamenti romantici e pacifici.
Il suo intento è quello di radere al suolo tutto ciò che si intromette tra lui e la sua donna. Ed è questo il gioco pericoloso, ed è forse questo il lato affascinante dell’ultimo lavoro di Paolo Coelho, in cui si intrecciano vicende di uomini e donne di successo che sfoggiano le loro ricchezze e utilizzano il potere che hanno come fossero le loro uniche qualità.

Tutta la vicenda si svolge in un arco temporale di ventiquattro ore a Cannes, durante il Festival e nelle indagini sono coinvolti numerosi personaggi che fanno parte dell’alta moda francese.

Il tentativo dello scrittore ne “Il vincitore è solo” pare voglia essere quello di combattere contro i principi di una società borghese che come unici due valori sembra avere il denaro e il successo. Tutto il resto passa in secondo piano.
Una faccia della realtà che viviamo viene mostrato in questo racconto, che vuole, tra le altre cose, rimandare l’immagine di quello che accade sotto i nostri occhi, ma che non sempre viene colto da un osservatore poco attento o distratto.

Dopo il grande successo nelle vendite con “L’alchimista”, “Monte Cinque”, “Il cammino di Santiago”, solo per citarne alcuni, e i riconoscimenti che gli sono stati resi in tutto il mondo, Paulo Coelho cerca di non deludere le aspettative dei suoi “seguaci”, con un lavoro originale rispetto ai suoi precedenti romanzi. Un tentativo di accaparrarsi un’altra fetta di pubblico, quello scettico nei confronti di uno scrittore che fa partire le storie dal punto di vista intimista, facendo compiere ai suoi personaggi sempre viaggi spirituali e percorsi interiori.

 

1Q84 di Murakami Haruki

14.11.2011 10:47

Un autore eccezionale che "crea dipendenza".

1984, Tokyo. Aomame è bloccata in un taxi nel traffico. L’autista le suggerisce, come unica soluzione per non mancare all’appuntamento che l’aspetta, di uscire dalla tangenziale utilizzando una scala di emergenza, nascosta e poco frequentata. Ma, sibillino, aggiunge di fare attenzione: «Non si lasci ingannare dalle apparenze. La realtà è sempre una sola». Negli stessi giorni Tengo, un giovane aspirante scrittore dotato di buona tecnica ma povero d’ispirazione, riceve uno strano incarico: un editor senza scrupoli gli chiede di riscrivere il romanzo di un’enigmatica diciassettenne così da candidarlo a un famoso premio letterario. Ma La crisalide d’aria è un romanzo fantastico – o almeno così dovrebbe essere – tanto ricco di immaginazione quanto sottilmente inquietante: la descrizione della realtà parallela alla nostra e di piccole creature che si nascondono nel corpo umano come parassiti turbano profondamente Tengo. L’incontro con l’autrice non farà che aumentare la sua vertigine: chi è veramente Fukada Eriko? Intanto Aomame (che pure non è certo una ragazza qualsiasi: nella borsetta ha un affilatissimo rompighiaccio con cui deve uccidere un uomo) osserva perplessa il mondo che la circonda: sembra quello di sempre, eppure piccoli, sinistri particolari divergono da quello a cui era abituata. Finché un giorno non vede comparire in cielo una seconda luna e sospetta di essere l’unica persona in grado di attraversare la sottile barriera che divide il 1984 dal 1Q84. Ma capisce anche un’altra cosa: che quella barriera sta per infrangersi. 1Q84 è stato accolto, alla sua uscita in Giappone, come il capolavoro di Murakami Haruki e immediatamente elevato a oggetto di un autentico culto, tanto che sono comparsi libri e riviste che provano a indagare i misteri e rispondere agli interrogativi che solleva questo romanzo fluviale, ricco di storie (e storie dentro storie), personaggi, idee. Un Murakami al suo meglio che riesce come non mai a centrifugare le suggestioni più diverse (dal folklore giapponese all’immaginario manga, dalla fantascienza occidentale alla tradizione letteraria orientale) e a esplorare le nostre ossessioni per dare vita a un mondo del tutto personale, onirico e malinconico, in cui nessuna realtà parallela ripaga per la nostalgia di un’amicizia d’infanzia, per un amore mancato.

 

                                                                  VOTO 7.5

 

IO,IBRA di David Lagercrantz

12.11.2011 09:45

 

"Puoi togliere un ragazzo dal ghetto,ma non il ghetto da un ragazzo".

Zlatan Ibrahimović è indubbiamente uno dei protagonisti più discussi del calcio internazionale. Cresciuto calcisticamente nell'Ajax, in Olanda, arrivò in Italia alla Juve e da lì passò prima all'Inter (vincendo lo scudetto col suo allenatore, José Mourinho) e poi finì al Barcellona in Spagna,in un affare dalle cifre esorbitanti che comprendeva anche il cartellino di Eto'o.In ogni squadra ogni anno sistematicamente ha vinto il Campionato trascinando i suoi.Ma alla corte di Guardiola, inserito in una delle squadre più forti del mondo, Ibra,nonostante 16 gol in 29 presenze,non si adattò affatto. Non tanto per il poco spazio in campo, quanto per quello concesso alla sua strabordante personalità. Insomma litigò aspramente con Guardiola e poi, d'accordo con il suo procuratore Mino Raiola, mise in atto un'astuta strategia per essere ceduto e tornare in Italia, più precisamente al Milan.
Il suo "Io, Ibra" è un'autobiografia scritta a quattro mani con lo scrittore svedese David Lagercrantz, in cui è lampante come l'esistenza di Ibra sia stata molto influenzata dal dolore e dalla condizione di odio sociale in cui erano costretti a vivere quelli del suo quartiere.Ibracadabra ripercorre molti aneddoti della sua sfavillante carriera, prestandosi volentieri ad attacchi e critiche verso molti addetti ai lavori che ha incontrato lungo il suo cammino. Nel libro Ibrahimovic non risparmia gli attacchi all'ex allenatore Guardiola,al quale dice di avergli urlato contro nello spogliatoio:"Sei senza coglioni",o di averlo minacciato di picchiare in pubblico se non lo avesse lasciato andare al Milan;all'ex compagno di nazionale Ljungberg accusato di pensare più a vendere slip con la sua pubblicità che ad impegnarsi sul campo;alle corse in auto a 300 all'ora per Amsterdam;alla sbronza con Trezeguet dopo lo scudetto con la Juventus;al rapporto con Capello che gli mostrava i video di Van Basten dicendo:"Impara da lui";alle critiche allo spogliatoio dell'Inter accusato di essere troppo diviso fra clan;alla serenità ritrovata grazie al Milan,che giura essere la sua ultima maglia.
Sembra essere un campione viziato che ce l'ha con tutti, la punta del Milan, ma poi nel libro si scopre che il suo passato non è stato tenero con lui. Lo stesso Ibra però sottolinea il messaggio del libro rivolto soprattutto ai ragazzi:"Se vi sentite strani,diversi e non inseriti in un contesto o in un ambiete,non siete voi quelli sbagliati.Significa che siete speciali".Ha infatti passato l'infanzia nella periferia di Malmoe,dove viveva in un quartiere dormitorio detto Rosengraad pieno di immigrati provenienti da tutta Europa e dove tutti i giorni faceva i conti con le critiche di quelli che lo circondavano. In "Io, Ibra" riporta la frase "puoi togliere il ragazzo dal ghetto, ma mai il ghetto dal ragazzo", scritta su uno striscione posto sopra un tunnel che lo svedese percorreva tornando verso casa ogni giorno. Insomma non è stato sempre tutto facile per Ibra, anzi è un campione che si è fatto da sè, a colpi di genio sul campo e, perché no, di astuzia e antipatia fuori dal campo.
E se non sarà mai un campione di simpatia, è almeno da riconoscergli di essere un campione con la palla tra i piedi. Anche quest'anno il suo contributo nel Milan si sta rivelando fondamentale, e se la squadra ha cominciato a rimontare posizioni in classifica dopo un inizio un pò incerto lo si deve soprattutto a lui, a Zlatan Ibrahimovic, che col suo tasso tecnico e il suo fisico potente riesce spesso a trovare la giocata vincente. Se non per il gol, almeno per l'assist in grado di liberare il compagno davanti al portiere, come nell'ultima partita con il Catania. Spesso è sufficiente averlo in campo, per far sì che i compagni si sentano più sicuri di sé, potendo contare su una vera e propria arma letale d'attacco, se non addirittura di un arsenale. La sua importanza è innanzitutto un fattore psicologico a favore dei compagni e a svantaggio dei difensori avversari, che sanno che dovranno fare gli straordinari per ostacolare il campione svedese.
Se è vero che nessuno ama particolarmente Ibrahimovic, i tanti italiani che sognano di essere allenatori di una squadra di calcio lo vorrebbero nel loro undici titolare. Forza fisica e tecnica sopraffina, con un senso del goal che hanno in pochi. Ma come fa ad essere così forte e così completo? Forse leggendo "Io, Ibra" si potrà scoprire il suo segreto.

 

I PESCI NON CHIUDONO GLI OCCHI di Erri De Luca

28.10.2011 10:13

Poesia in prosa.

Il nuovo libro dello scrittore napoletano Erri De Luca, I pesci non chiudono gli occhi, edito dalla casa editrice Feltrinelli,può definirsi,non senza un briciolo di compiacimento,un romanzo di formazione, testimonianza delle esperienze vissute e della nostalgia dei ricordi del passato. E’ un racconto molto emozionante, che induce il lettore a confrontarsi con le esperienze del passato, ricordando un altro romanzo di formazione, Il giorno prima della felicità , dello stesso De Luca.

La memoria riconduce lo scrittore all’età di dieci anni, periodo che segna il passaggio dall’età dell’infanzia a quella adulta, quando non si è più bambini ma non si è ancora maturi per affrontare la realtà con tutti i suoi piccoli e grandi ostacoli.

Il protagonista della storia, nel quale ritroviamo le caratteristiche dell’autore adulto, si prepara ad affrontare esperienze nuove e a scoprire emozioni e sensazioni. Egli, vivendo in un paesino di mare, lontano dalla vita frenetica di città, può apprezzare giorno dopo giorno le cose semplici, come il profumo del mare o la leggera brezza della sera. La sua è una vita tranquilla che non gli impone di crescere prima del tempo; il ragazzino ama pescare e trascorre molte della sue giornate a leggere in spiaggia. La serenità della sua esistenza di bambino viene, un giorno, turbata dalla scoperta del significato dell’amore. Quell’amore che, fino a quel momento, era stato qualcosa di indefinito, diventa un sentimento reale e intenso che è bello da vivere, ma che, molto spesso, fa anche stare male.

Il nostro protagonista incontra una ragazzina, con la sua stessa passione per la lettura; da qui nascerà un amore che lo farà soffrire e, al tempo stesso, lo farà crescere mostrandogli il vero aspetto della realtà, della quotidianetà piena di problematiche e ingiustizie.

I pesci non chiudono gli occhi è il racconto dei ricordi di un bambino narrati con la maturità dell’adulto; ricordi d’amore, di giochi, di rabbia, di tristezza, di amarezza. Esperienze di un ragazzino che, come un pesce, non chiudeva gli occhi mentre, emozionato, dava il suo primo bacio e che lo hanno reso uomo.

Erri De Luca, con il suo nuovo romanzo malinconico ma gradevole e delicato, quasi poetico, ci affascina e ci meraviglia; la sua scrittura semplice ma efficace, conquista il lettore che si lascia trasportare dalle emozioni del protagonista del libro. La precisa descrizione della psicologia infantile induce ad una attenta riflessione sui ricordi del passato per scoprire i valori della vita e affrontare il futuro con forza e speranza.

 


 

LE PRIME LUCI DEL MATTINO di Fabio Volo

22.10.2011 09:51

Elogio del coraggio di cambiare la propria vita.

Stavolta il versatile 39enne racconta la storia di una donna, Elena, insoddisfatta di una vita fatta di routine e con un rapporto d'amore che si è trasformato in amicizia; un giorno, per caso, Elena si trova a fare a pugni di nuovo con i suoi slanci e inizia a chiedersi se non sia giusto che anche lei torni a sognare e ad essere felice rimettendo tutto in discussione.

Ha sempre deciso in anticipo come doveva essere la sua vita: la scuola da fare, l’università, l’uomo da sposare... perfino il colore del divano. È diventata moglie prima di diventare donna. Finché un giorno sente che qualcosa inizia a scricchiolare. La passione e il desiderio si affacciano nella sua quotidianità, costringendola a mettersi in discussione. Elena si rende conto che un altro modo di vivere è possibile. Forse lei si merita di più, forse anche lei si merita la felicità. Basta solo trovare il coraggio di provare, di buttarsi, magari di sbagliare. "Per anni ho aspettato che la mia vita cambiasse, invece ora so che era lei ad aspettare che cambiassi io."

Una trama alla Fabio Volo, fatta di personaggi in cui molti si riconoscono e di stereotipi narrativi semplici ed efficaci, è la cifra stilistica di questo Le prime luci del mattino che cerca di indagare nelle fessure dell'animo umano per dare la soluzione a cui tutti, prima o poi, pensano: buttarsi a capofitto in tutto ciò che capita senza preoccuparsi di farsi male ma scegliendo la strada della felicità.

Un insegnamento basilare per un personaggio che piace e i cui libri vendono molto esattamente come i suoi film ed esattamente come i suoi programmi radiofonici: c'è chi si chiede se si tratti dell'imbarbarimento della società e chi invece pensa che Fabio Volo sia l'emblema di un modo di fare che piace per la sua spontaneità e voglia di raccontare nei modi più disparati.

Certamente dietro Le prime luci del mattino non c'è chissà che filosofia nè chissà che insegnamento di vita che nessun altro può dare ma sicuramente si nasconde un modo di scrivere lineare, asciutto e contemporaneo che piace e coinvolge.

Così come risulta ben tratteggiata la figura femminile di Elena, emblema di una donna italiana sempre in bilica tra il dovere e il piacere e che solo in un momento di stanca trova la forza di provare a cambiare dopo anni trascorsi tra la paura di sbagliare e la necessità di trovare stabilità.

Presentato  a Francoforte, Le prime luci del mattino ha già colpito tutti gli operatori del settore e ancora una volta le prime risposte da parte dei lettori sono state più che positive.

 

MOMENTI DI TRASCURABILE FELICITA' di Francesco Piccolo

14.10.2011 10:58

Quando la felicità si nasconde nelle debolezze e nei piccoli gesti.

Sei in coda al supermercato in attesa del tuo turno, magari sei bloccato nel traffico, oppure aspetti che la tua ragazza esca dal camerino di un negozio d'abbigliamento. Sei un po' distratto, insomma. Quando all'improvviso la realtà intorno a te sembra convergere in un solo punto, e lo fa brillare. E allora capisci di averne appena incontrato uno. I momenti di trascurabile felicità funzionano così: possono annidarsi ovunque, pronti a pioverti in testa e farti aprire gli occhi su qualcosa che fino a un attimo prima non avevi considerato. Per farti scoprire, ad esempio, quant'è preziosa quella manciata di giorni d'agosto in cui tutti vanno in vacanza e tu rimani da solo in città. Quale interesse morboso ti spinge a chiuderti a chiave nei bagni delle case in cui non sei mai stato e curiosare su tutti i prodotti che usano. O la soddisfazione nel constatare che un amico ha ripreso in poco tempo tutti i chili persi con una dieta faticosissima che, per qualche giorno, sei stato tentato di fare anche tu. A metà strada tra Mi ricordo di Perec e le implacabili leggi di Murphy - ma col gusto tutto italiano della divagazione - Francesco Piccolo mette a nudo con spietato umorismo i piaceri più inconfessabili, i tic, le debolezze con le quali prima o poi tutti noi dobbiamo fare i conti. Pagina dopo pagina, momento dopo momento, si finisce col venire travolti da un'inarrestabile ondata di divertimento, intelligenza e stupore. Con la stessa sensibilità con cui ha perlustrato l'Italia «spensierata», Francesco Piccolo raccoglie, cataloga e fa sue le mille epifanie che sbocciano a ogni angolo di strada. Perché solo riducendo a spicchi la realtà si riesce ad afferrare per la coda - magari un attimo appena - il senso più profondo della vita.

Se la felicità è inafferrabile e sfuggente, allora per poterne godere quando si mostra a noi è necessario coglierla in quei momenti dove si manifesta inattesa ed a volte anche nascosta. Ecco allora un libro dove l'autore ci mostra i, probabilmente, suoi momenti di trascurabile felicità, colti nei gesti, nei pensieri e nelle piccole emozioni del quotidiano. Un elenco di "situazioni" veramente comuni e banali, descritti però con uno sguardo acuto ed indagatore, a volte con cinismo ed un pò di cattiveria, ma che, a ben pensarci, hanno in effetti una loro "grazia" nascosta. Un viaggio, sopratutto "mentale", alla scoperta di quella sostanza che si cela dietro l'apparenza della banalità quotidiana, del gesto scontato, della "frase fatta", dei luoghi comuni che ogni giorno costellano l'esistenza di tutti noi e che, visti con lo sguardo dell'autore, non sono più solo noiosa ripetitività, ma momenti vissuti e quindi degni di essere considerati tali.
Si ride, a volte con un pò vergogna, perchè in molte situazioni descritte potremmo ritrovare scene della nostra vita di tutti i giorni, del nostro falso moralismo e delle nostre piccolezze.
Una lettura scorrevole, una capacità descrittiva acutissima e la sensazione di un "malessere" di fondo che costella il nostro vivere quotidiano se non siamo in grado di cogliere ciò che di bello ci viene offerto anche dai gesti e dalle situazioni più scontate.
 

 


 

LE PRIME LUCI DEL MATTINO di Fabio Volo

22.10.2011 09:51

Elogio del coraggio di cambiare la propria vita.

Stavolta il versatile 39enne racconta la storia di una donna, Elena, insoddisfatta di una vita fatta di routine e con un rapporto d'amore che si è trasformato in amicizia; un giorno, per caso, Elena si trova a fare a pugni di nuovo con i suoi slanci e inizia a chiedersi se non sia giusto che anche lei torni a sognare e ad essere felice rimettendo tutto in discussione.

Ha sempre deciso in anticipo come doveva essere la sua vita: la scuola da fare, l’università, l’uomo da sposare... perfino il colore del divano. È diventata moglie prima di diventare donna. Finché un giorno sente che qualcosa inizia a scricchiolare. La passione e il desiderio si affacciano nella sua quotidianità, costringendola a mettersi in discussione. Elena si rende conto che un altro modo di vivere è possibile. Forse lei si merita di più, forse anche lei si merita la felicità. Basta solo trovare il coraggio di provare, di buttarsi, magari di sbagliare. "Per anni ho aspettato che la mia vita cambiasse, invece ora so che era lei ad aspettare che cambiassi io."

Una trama alla Fabio Volo, fatta di personaggi in cui molti si riconoscono e di stereotipi narrativi semplici ed efficaci, è la cifra stilistica di questo Le prime luci del mattino che cerca di indagare nelle fessure dell'animo umano per dare la soluzione a cui tutti, prima o poi, pensano: buttarsi a capofitto in tutto ciò che capita senza preoccuparsi di farsi male ma scegliendo la strada della felicità.

Un insegnamento basilare per un personaggio che piace e i cui libri vendono molto esattamente come i suoi film ed esattamente come i suoi programmi radiofonici: c'è chi si chiede se si tratti dell'imbarbarimento della società e chi invece pensa che Fabio Volo sia l'emblema di un modo di fare che piace per la sua spontaneità e voglia di raccontare nei modi più disparati.

Certamente dietro Le prime luci del mattino non c'è chissà che filosofia nè chissà che insegnamento di vita che nessun altro può dare ma sicuramente si nasconde un modo di scrivere lineare, asciutto e contemporaneo che piace e coinvolge.

Così come risulta ben tratteggiata la figura femminile di Elena, emblema di una donna italiana sempre in bilica tra il dovere e il piacere e che solo in un momento di stanca trova la forza di provare a cambiare dopo anni trascorsi tra la paura di sbagliare e la necessità di trovare stabilità.

Presentato  a Francoforte, Le prime luci del mattino ha già colpito tutti gli operatori del settore e ancora una volta le prime risposte da parte dei lettori sono state più che positive.

 


 

IL TEMPO CHE VORREI dI Fabio Volo

09.10.2011 11:54

Quando rivorremmo indietro ogni istante vissuto.

 

Il nuovo libro di Fabio Volo è anche il più sentito, il più vero, e la forza di questa sincerità viene fuori in ogni pagina. Ci si ritrova spesso a ridere in momenti di travolgente ironia. Ma soprattutto ci si ritrova emozionati, magari commossi, e stupiti di quanto la vita de protagonista assomigli a quella di ciascuno di noi.Come urlava Janis Joplin...cambierei tutti i miei domani per un solo ieri...il tempo che vorrei...,il tempo che vorrebbe indietro Lorenzo,giovane ragazzo di provincia che riesce a farsi strada attraverso il lavoro di pubblicitario abbandonando il suo aiuto al bar del padre,praticamente sull'orlo del fallimento...il tempo che vorrebbe indietro per amare e farsi amare con piu' consapevolezza dalla donna che ormai lo ha lasciato perche' vedeva in lui queste "incapacita'",un uomo che non ha nemmeno avuto il coraggio di trattenerla quando se ne e' andata ...Una scrittura scorrevolissima e semplice,si legge davvero in un soffio,commovente e toccante anche nelle descrizioni dei piccoli gesti quotidiani,l'incapacita' di comunicare da parte sua e da parte del padre nel quale alla fine si rivede come in uno specchio,le attenzioni e i comportamenti dei genitori fanno davvero venire le lacrime agli occhi,gente semplice,umile,piena di dignita'...quelle persone che accettano una tazza di caffe' se solo la stai gia' facendo per te,persone che per "riguardo" non chiedono di saldare i conti ai loro debitorii.Toccante quando Lorenzo e il padre aspettano insieme l'esito degli esami...per la prima volta dopo anni riescono a toccarsi...triste il finale della sua storia con lei....anche se probabilmente si ameranno per sempre...ma ormai non si puo' piu' tornare indietro:ama intensamente ogni giorno come se fosse l'ultimo.

Di questo parla il nuovo libro di Fabio Volo "Il tempo che vorrei" , forse il più bello dell’autore di "Esco a fare due passi"; di questo parla Volo con la sua capacità di descrivere la quotidianità di un pensiero, di un fatto, che sia divertente o doloroso, talmente bene che, nei suoi personaggi, il lettore rivede un po’ di sé. Questo romanzo è come se fosse diviso in due parti: c’è il tempo che Lorenzo vorrebbe, legato al rapporto col padre, un tempo che forse riavrà e che sa di miracolo; e c’è un tempo che Lorenzo rivorrebbe, quello con Lei, raccontato in pagine piene di "mancanza", piene di un amore che il personaggio non sa chiamare per nome. Volo accarezza delicatamente mille tematiche: quella della povertà e del peso di vederla riflessa negli occhi di ti guarda; quella di un rapporto padre-figlio logorato dal non saper dire "ti voglio bene", dal silenzio di chi non sa dire "ti ho scelto anche io"; quella dell’amicizia, vera e profonda che c’è sia per una risata che per una lacrima; quella di una paternità a cui non si è pronti perché per diventare genitori i rancori da figli devono essere cancellati; quella di un amore lasciato andare via tanto in fretta da sentirne ovunque l’odore, il richiamo. E poi, co-protagonista di questo romanzo è senza dubbio il tempo che toglie, che dà, che sfugge, che non basta, che sembra vuoto, che è ingestibile, che vorremmo e che rivorremmo. Anche noi. Ogni giorno.

 

                                                                     VOTO  7

LA MANO CHE TENEVA LA MIA di Maggie O'Farrell

05.10.2011 09:08

 

Sono tornate le ragazze all'inglese.

Nella vitale Londra del secondo dopoguerra, la giovane Lexie Sinclair, appena arrivata dalle campagne del Devon, sente che tutto è possibile. Mentre cerca di realizzare il sogno di diventare giornalista, viene in contatto con un mondo pervaso da uno straordinario fermento culturale e trova anche l’amore, in un uomo più grande di lei, un importante editore. Nella Londra di oggi, una giovane artista, Elina, ha in comune con la sua coetanea di cinquant’anni prima il grande amore per questa città, che ha accolto anche lei permettendole di realizzare il suo sogno, quello di diventare un’artista.
Ma Elina fatica a riprendersi da una recente maternità, e a volte quel passeggino che spinge le sembra troppo pesante, come se frenasse i suoi sogni e la sua creatività. Ted, il padre del bambino, le sta accanto in questi momenti difficili, e anche lui fa i conti con la paternità. Guardando il figlio, la mente di Ted corre inevitabilmente alla propria infanzia, ma ci sono immagini, ricordi, pensieri che affiorano nel suo subconscio e non coincidono con quello che lui sa del proprio passato. Le due storie, in apparenza così lontane, finiranno per rivelare un legame che colpisce il lettore con tutta la forza di uno straordinario colpo di scena.
 
"Ed ecco Lexie, su un marciapiedi a Marble Arch. Si sta aggiustando il dietro della scarpa e lisciando i capelli. È una serata calda, velata, poco dopo le sei. Uomini in giacca e cravatta e donne con il cappellino e i tacchi alti che tirano bambini per mano le scorrono tutt’intorno come se loro fossero un fiume e lei una roccia.
Ha iniziato il nuovo lavoro da due giorni. È assistente ascensorista in un immenso grande magazzino. L’ufficio di collocamento l’ha mandata lì dopo il risultato desolante della prova di dattilografia, e da allora non fa che ripetere: «Che piano, signora?», «Sale, signore?», «Terzo piano, casalinghi, merceria e modisteria, grazie». Non aveva mai immaginato che si potesse fare una cosa tanto stupida. O di riuscire a tenere a mente la struttura di un negozio di sette piani, O che una persona potesse comprare tante cose: cappelli, cinture, scarpe, calze, cipria, retine per capelli, completi da uomo. Li ha visti, gli elenchi della spesa che le persone reggono con mani guantate, ha sbirciato da dietro. Tanto quello è solo l’inizio, lo sa. E lì, è a Londra: la sua vita in technicolor comincerà da un momento all’altro, ci scommette, ne è sicura: deve cominciare per forza."

“Una narrazione serrata e di alta qualità letteraria. Maggie O’Farrell scrive con una profonda sensibilità, con una grande attenzione ai particolari, a quei piccoli momenti della vita quotidiana che possono diventare importanti.” The Observer
 
                                                                   VOTO  7

 

ACCIAIO di Silvia Avallone

30.09.2011 09:22

Disperzione e provincia,ma forse la salvezza è dietro l'angolo.

 

Acciaio è uno di quei romanzi che ti riconciliano con la letteratura italiana contemporanea. Mentre scorri le pagine assorto nella lettura commenti a voce alta: “Non è vero che il romanzo è morto”, “Si scrivono ancora le storie”, “Non è finito il tempo di raccontare i sentimenti”. Era dalla lettura di romanzi come Lo schiaffo e Alla larga dai comunisti, entrambi di Luigi Carletti – editi da Baldini e Castoldi nel 2008 e nel 2009 – che non m’imbattevo in una così evidente capacità di raccontare storie, in questo caso ancor più sorprendente perché l’autrice ha soltanto venticinque anni.
Acciaio di Silvia Avallone è un romanzo di formazione che attualizza la lezione di Salinger e del suo fondamentale Giovane Holden. Racconta la storia della profonda amicizia tra Francesca e Anna, due ragazzine di tredici anni che diventano donne in una provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte e ragazzi che sognano la fuga. Piombino è il palcoscenico degradato su cui recitano i personaggi, sempre curati e credibili, mai ridotti a stereotipi e a macchiette fumettistiche. Una via Stalingrado di pura fantasia – localizzabile nel quartiere periferico di mare noto come Salivoli e identificabile nel rione operaio dei Lombriconi – presenta casermoni in stile sovietico dove vivono operai della Lucchini, famiglie marginali, piccoli spacciatori, ladruncoli, perdigiorno, studenti e ragazzi che in estate popolano la piccola spiaggia davanti all’Isola d’Elba. Silvia Avallone sceglie di dare un nome di fantasia al teatro principale delle vicende perché rappresenta in un luogo geografico definito la vita problematica di ogni piccola città bastardo posto di gucciniana memoria. Non é Piombino l’obiettivo, ma la provincia italiana che cambia e la vita che pulsa lontana, distante milioni di anni luce dalle speranze dei giovani.
Ecco via Stalingrado a giugno, bruciata dal sole, descritta dalla penna ispirata di Silvia Avallone: Da una parte c’era il mare, invaso di adolescenti in quell’ora bestiale. Dall’altra il muso dei casermoni popolari. E tutte le serrande abbassate lungo la strada deserta. Il mare e i muri di quei casermoni sotto il sole rovente del mese di giugno, sembravano la vita e la morte che si urlavano contro. Non c’era niente da fare: via Stalingrado, per chi non ci viveva, vista da fuori, era desolante. Di più: era la miseria.
L’autrice riesce a raccontare la disillusione di una generazione che non crede più a niente e non si entusiasma per la politica, soprattutto non trova una via di fuga lottando per un ideale ma soltanto costruendosi un mondo irreale. Silvia Avallone racconta la droga presa nei cortili dei palazzi per noia, abitudine, per trovare il coraggio di affrontare un lavoro che distrugge la vita, per sentirsi uomini e affrontare una serata in discoteca o in un night a caccia di emozioni.
Il tema principale è l’amicizia tra due ragazzine, una bionda e l’altra mora, entrambe di una bellezza solare e sfacciata che vedono crescere i corpi femminili sotto lo sguardo interessato degli uomini. Un’amicizia che sfocia nel rapporto lesbico, appena sfumato dall’autrice che non calca la mano sui momenti morbosi e racconta con grazia i sentimenti, ma subito dopo muore per futili incomprensioni e gelosie, forse perché i loro giochi di ragazzine si sono spinti oltre il consentito. Francesca tenta di sostituire l’amica con Lisa, ma non è la stessa cosa, comincia un percorso di autodistruzione che la porterà a perdere la propria giovinezza sul palcoscenico del Gilda, un night club dove ballerà nuda e si concederà alle voglie represse di un pubblico di operai che sfoga le frustrazioni nel sesso.
Silvia Avallone ha una capacità descrittiva tipica solo dei grandi scrittori, perché riesce a catturare i sentimenti nelle frasi e a comunicare sensazioni descrivendo luoghi con un tono a metà strada tra l’elegiaco e il poetico. Il complesso di quattro casermoni da cui piovono pezzi di balcone e di amianto in un cortile dove i bambini giocano accanto a ragazzi che spacciano e vecchie che puzzano è il luogo dove si dipanano le esistenze dei protagonisti. Uomini e donne che si fanno un’idea del mondo restandone ai margini, credendo normale non andare in vacanza, non andare al cinema, non sfogliare il giornale e non leggere libri. Troviamo persino una citazione de La pioggia nel pineto di dannunziana memoria che costruisce una cadenza di eventi intorno a un tragico incidente avvenuto sotto la pioggia. La descrizione degli operai siderurgici e dei luoghi dove vivono è certosina, paziente, evoca sentimenti e ricordi.
Il Cotone, il quartiere dell’acciaio. Nudo come una tomba. Non una panetteria, un alimentari, un’edicola. Forse la serranda abbassata di un’officina. Lo spolverino prodotto dal carbone te lo sentivi entrare nei polmoni, appiccicarsi addosso, annerire la pelle.
Silvia Avallone racconta l’adolescenza, un’età potenziale dove tutto può ancora accadere e ogni possibile strada da prendere è ancora aperta, ma non scrive un facile romanzo giovanilistico alla Moccia che strizza l’occhio agli adolescenti. Acciaio è un romanzo problematico che parla di padri violenti che picchiano figlie disinibite ma sono loro i primi cattivi esempi, racconta di genitori assenti che fuggono da un destino operaio per trafficare in opere d’arte rubate e denaro falso, descrive il dramma delle morti sul lavoro in un’industria siderurgica, narra la perdita dei valori di una società che non crede più a niente, a parte sesso e denaro. I ragazzini sono la speranza, come diceva Pasolini, ma pure loro si perdono, purtroppo, perché diventano uomini e donne. Un romanzo pervaso da un pessimismo di fondo e da un andamento malinconico, come una poesia di Giovanni Pascoli o una ballata di Fancesco Guccini, ma che si legge con passione dalla prima all’ultima pagina, parteggiando per i protagonisti e fremendo per le loro vicissitudini. Acciaio appassionerà gli adolescenti che ci rivedranno la loro vita e tutte le persone che cercano in una storia la cruda realtà della vita quotidiana. Non piacerà a chi cerca l’elegia provinciale, il mito del cantuccio d’ombra romita, rifugio tranquillo dove stemperare i problemi quotidiani. La provincia toscana non è più così. Una raccomandazione: non fateci un film perché distruggerete l’incanto e la poesia della pagina scritta, non riproducibile dallo scarso mestiere di certi registi italiani contemporanei che seguono le orme di Moccia e Muccino. A meno che non si scoprano nuovi emuli di Pasolini e Germi, capaci di farsi cantori di un’epopea ambientata ai tempi in cui la classe operaia non può andare in Paradiso.
Silvia Avallone ha venticinque anni ed è al suo primo romanzo.Al contrario dei suoi protagonisti – ha trovato la sua strada.

 

Scritto da:Nicola Giordano

 

                                                                                                      VOTO  7.5


 

HANNO TUTTI RAGIONE di Paolo Sorrentino

30.09.2011 09:15

Capolavoro "rock-letterario".

 

Provocatorio, torrenziale e satirico, sconnesso e prepotente, Hanno tutti ragione (Feltrinelli, 320 pp., euro 18) è l’esordio letterario del regista Paolo Sorrentino, partenopeo classe 1970, padre del divertissement anti-andreottiano e tarantiniano Il Divo e dell’elegiaco Le conseguenze dell’amore. Penalizzato dalla copertina più respingente di tutti i tempi, forse più adatta a rappresentare esteticamente l’eventuale opera prima di Garrone (arriverà: qualche anno fa Giordana, pochi mesi fa i diari di Zurlini, adesso Sorrentino…), il romanzo è stato omaggiato e benedetto dal vecchio santo patrono dei casi letterari italiani: già supremo artefice delle fortune di Avoledo (oneste e sensate) e Faletti (del tutto equivoche), Antonio D’Orrico ha così pontificato, nel febbraio scorso, sulle colonne del Corriere della Sera: “Paolo Sorrentino ha inventato Tony Pagoda, un eroe del nostro tempo, il più grande personaggio della letteratura italiana contemporanea”. Cominciamo subito col dire che tutto è fuorchè un eroe, il Tony Pagoda: semmai è un’icona infelice, drogata, viziosa e infausta, paradigmatica d’una miseria culturale depressiva e deprimente. E che se questo è “il più grande personaggio” della nostra letteratura italiana, allora c’è qualcosa che è sfuggito a papa D’Orrico: almeno Il gregario di Paolo Mascheri, almeno Actarus di Claudio Morici, almeno Il nemico di Emanuele Tonon, sempre restando sul livello dei narratori nati negli anni Settanta. D’Orrico ha scritto che questo romanzo è bello come Quer pasticciaccio brutto de via Merulana o La cognizione del dolore di Gadda e Viaggio al termine della notte di Céline. Sospettiamo che la lunga distanza temporale che separa il pontefice dei casi letterari dalle prime letture di quei romanzi abbia determinato un entusiasmo un po’ eccessivo. Il concetto, forse, poteva essere questo: Hanno tutti ragione è massimalista e scorretto, e in questo senso si può considerare derivativo rispetto al paradigma céliniano; linguisticamente, si concede qualche licenza (ma senza eccedere, e senza averne coscienza letteraria) che può considerarsi derivativa rispetto all’espressionismo italiano. Da qui a stabilire parallelismi tra l’ingegnere milanese e il regista partenopeo (LFC può riposare in pace) ce ne vuole. Ci vuole, soprattutto, una grande fiducia nella scarsa lucidità dei lettori italiani. Ci vuole, aggiungiamo, un pizzico di pressappochismo, più pubblicitario che critico letterario.
Hanno tutti ragione è un romanzo disorientante perchè si tratta dell’opera prima di un outsider. Come tutte le opere prime, ha poderosi difetti e affascinanti tratti distintivi. È narrativa sconnessa, slabbrata, povera di struttura, a metà strada tra un canovaccio evoluto e una smania di giudizio della realtà, spesso sbrodolona, masaniella e populista. È narrativa solo apparentemente popolana, per lessico e vicende raccontate; c’è qualche pretesa d’affermare una personalità autoriale che Sorrentino potrà guadagnare nel tempo, come scrittore. Come regista, mi sembra pacifico, le cose sono ben diverse. E meno male.

Incontriamo, allora, questo favoloso avatar plasmato da D’Orrico. Ecce Tony Pagoda da Vico Speranzella. Attaccato alla vita come una sanguisuga, ha avuto talento e discreta fortuna, come cantante da night. È un furbo, convinto che la furbizia sia un’arte. Molto napoletano, in questo senso, molto viscerale. È un cinico, che giura che la vita l’abbia inventata un sadico, “fatto di coca tagliata malissimo”. Ma è uno che non vuole appassire. Crede che l’arte di tirare avanti passi per il sentiero supremo della distrazione. E sa sopportare la nausea, perché nella nausea ci sta a meraviglia. Adesso ha 44 anni “carichi e feroci” e si sente “fradicio di sè stesso”. È un cocainomane (da vent’anni) con chiari complessi di inferiorità nei confronti di Frank Sinatra. E qualche nostalgia per l’Italia. Torna a Napoli, dagli States, ma la musica non cambia: complice un amore perduto (male, nel male), Beatrice, si tormenta e si sprona con “cocaina, vino, birra, superalcolici, cocktail, aperitivi, sigarette, grassi animali e vegetali”. Il rapporto con sua moglie è un po’ peggiorato (“Quindici anni fa si scopava da bufali. Ora è un oggetto d’arredamento”; “Un involtino di angoscia mi è diventata questa donna”). Divorzio. Brasile. A spegnersi, dalle parti di Manaus, a imparare qualcosa da un mammasantissima scampato a tutto quanto. Per diciotto anni. Poco prima del capodanno del 2000, l’Italia torna a chiamarlo. Arriva un suo ammiratore, ex craxiano, ora deputato della Repubblica. Si chiama Fabio, è pieno di soldi e di malinconia. Domanda una serata in Corsica e stop. Paga un miliardo più del dovuto. Promette un sacco di donne. Tony non sa niente di quel che è successo negli ultimi vent’anni, i suoi vecchi amici racconteranno qualcosa. Dai cellulari a Ikea, passando per la fine della vecchia repubblica, l’avvento dei computer e via dicendo. E poi finisce a Roma, ben salariato da Fabio. Passano due anni. L’Italia è “anarchia spregiudicata ai limiti del regime sudamericano”, e il vecchio Fabio confonde la sua vecchiaia con quella di questa nazione. Succede. La sua ultima ossessione è per la parola “figo”. Vedrete come.

Qualche ulteriore osservazione. Le prime battute del libro sembrano avere più di un debito di riconoscenza nei confronti dell’incipit di Wrong di Andrea Consonni, apparso nel 2003: mentre lo scrittore lombardo giocava sul concetto “non me ne frega un cazzo”, seguito da una valanga di cose e di persone per le quali non aveva interesse, il regista napoletano punta su un più educato – ma non meno torrenziale – “non sopporto”. In entrambi i casi, una potenziale fonte di ispirazione comune è la famosa scena dello specchio della Venticinquesima ora di Spike Lee (2000), film tratto dal (bel) romanzo omonimo di David Benioff. Ricordate? È il monologo del “fuck”. Siamo da quelle parti. Decisamente. E adesso scopriamo come scrive il regista Sorrentino. Perchè è stravagante e irregolare la lingua letteraria del narratore di questo romanzo. A partire dagli aggettivi. Come scrive a un tratto, raccontando della seduzione, vuole essi siano “spiazzanti e convincenti, iperbolici e precisi”. Ecco allora che Tony è uno “ieratico” e speranzoso di carattere; ha amici “limitrofi” alla sua esistenza, mentre i musicisti sono “defenestrati” dalle loro abitudini, e lui si “ubica” su un palco; e poi il silenzio si fa “fragile. Esistenziale”; memorabili le lacrime “stanziali”, almeno quanto la vita di coppia di due amanti “ierofanici” e “ossidionali”. Buona invece la coatta “entrata giaguara”, gli accademici come “risma che sa proferire”, “sifilitici dell’intelletto”. Questo Pagoda ha qualche frustrazione universitaria alle spalle: “Il docente universitario – scrive – è sempre vigliacco. I libri la sua trincea. La pubblicazione il suo moschetto. Ma dentro non c’è niente”. Chissà, prima di cantare nei night forse studiava al DAMS. Concludiamo con qualche curiosità. Errori cronologici non mancano; nel 1980, Carl Lewis è considerato già “campione del salto in lungo”: peccato abbia conquistato i primi titoli nel 1983. Il film Innamorarsi, con De Niro e la Streep, è considerato già uscito con quattro anni di anticipo. Si vede che nel cinema certe cose si sanno un sacco di tempo prima; oppure – diciamo così – che stanno nell’aria. Proprio come certi casi letterari. E questo è quanto.

 

Scritto da:Nicola Giordano

 

 

                                                                                                     VOTO 8

 

IL CIMITERO DI PRAGA di Umbero Eco

30.09.2011 09:11

Tra anti-semitismo e falsi protocolli,un ennesimo capolavoro di Eco.

 

Erudito e pop, bieco e appassionante, a trent'anni dall'uscita de Il nome della rosa il sesto romanzo di Umberto Eco ci trascina nel gorgo irrazionale della modernità fino a rivelarci come possa esserne scaturito un progetto di sterminio totale. Mi ha colpito la fluidità con cui la trama scorre attraverso cinquecento pagine di intrighi spionistici.

Al lettore stavolta Eco risparmia certi sforzi interpretativi cui ci aveva costretti in passato, chiede solo di lasciarsi condurre nel ritmo incalzante dei colpi di scena, riuscendo nell'impresa di far apparire naturale, scorrevole, una monumentale ricostruzione storica del morbo cospirazionista. Si compiace, a un certo punto, il falsario Simonino Simonini, protagonista sconvolgente e unico personaggio di fantasia de Il cimitero di Praga.«Non c'è che parlare di qualcosa per farlo esistere». Ed è per questo che il semiologo deve farsi scrittore, e lo scrittore "leggero" si conquista la credibilità dello storico.

Basta che Simonini, divenuto esperto fabbricatore di dossier, dopo un apprendistato di falsi testamenti e smercio di ostie consacrate per messe sataniche, inventi nel 1898 il verbale di un raduno cospirativo notturno di rabbini fra le lapidi del cimitero israelitico di Praga - a scopo di lucro, naturalmente, distillandovi la sua avversione per gli ebrei - e subito un mondo intero che non aspettava altro vi si aggrapperà nel credersi vittima di un subdolo progetto di dominazione giudaica. È successo davvero, come ci insegna la rapida propagazione, tra plagi e compravendite, dei Protocolli dei Savi di Sion in parallelo ai pogrom che anticiparono la soluzione finale nazista.

Tutti noi abbiamo una strega o un orco delle favole che ha ingombrato i nostri incubi da bambini. A Simonino è toccato lo spregevole ebreo Mordechai, nascosto nel ghetto di Torino dopo aver perpetrato un omicidio rituale. Che paura i racconti del nonno sull'ebreaccio. Suscita invece l'ammirazione del nipote che il capitano sabaudo Giovan Battista Simonini abbia segnalato per lettera il pericolo ebraico all'abate Barruel (circostanza, questa, storicamente provata) contribuendo a innescare la catena di Sant'Antonio dei futuri complotti. Divenuto adolescente, il nostro Simonino viene irriso da una bella ragazza del ghetto torinese abolito nel 1848 da re Carlo Alberto, e di certo ciò non giova al suo futuro rapporto con il sesso femminile. Da allora in poi riverserà solo sul cibo, parossisticamente, la sua energia sensuale.

Possiamo noi immedesimarci in un tale figuro, addirittura provare ambigua simpatia nei suoi confronti? Le manie e i pregiudizi di Simonini ci sono familiari perché hanno pervaso la mentalità corrente, si confondono con la parte cattiva di noi stessi. Detesteremo la sua spregiudicatezza di calligrafo disposto al falso contro chiunque faccia comodo al potente di turno (i gesuiti, i massoni, i repubblicani) e l'indifferenza al prossimo che ne farà un pluriomicida; ma proveremo commiserazione per la sua infelicità psicotica.

Umberto Eco si diverte, e ci diverte, facendolo incontrare a Parigi con un giovane dottore ebreo, Sigmund Freud, dispensatore di consigli terapeutici a base di ipnosi e cocaina, ignaro di rivolgersi a uno spione la cui personalità è ormai schizoide (lo perseguita come suo temibile alter ego l'abate Dalla Piccola); afflitta da smemoratezza, ma non da sensi di colpa. A quel punto Simonini è già un rottame d'uomo. Ha prestato i suoi bassi servigi a Cavour, infiltrandosi nella spedizione dei Mille in Sicilia per neutralizzare lo spirito repubblicano di Garibaldi. Ha tradito una nobile camicia rossa come Ippolito Nievo. Ha profittato di Alexandre Dumas e succhiato le prime fantasie complottiste dai suoi romanzi, come dai feuilleton di Emile Sue. È in grado di profittare nel doppio gioco di ogni servizio segreto bisognoso di prove contro il "nemico occulto" del momento, intrufolandosi nelle fogne di Parigi e nei salotti letterari, alternando la gastronomia più raffinata al vomito. Mai sazio del denaro, perennemente impaurito, attraverserà i regimi e i moti popolari come la Comune del 1871, le sette religiose o massoniche, i servizi piemontesi, francesi, prussiani, russi, con totale indifferenza. Sempre confidando, però, di mettere a frutto la sua fobia antiebraica: custodisce come un tesoro la formidabile invenzione del raduno al cimitero di Praga. Possibile che fra i tanti intrighi riguardanti i gesuiti e i massoni, le potenze belligeranti che si scambiano false informazioni, l'avvisaglia della cospirazione comunista orchestrata non a caso da un ebreo di nome Marx, non si trovi nessuno interessato a prendersela con il popolo maledetto, desideroso solo - come gli spiegava il nonno - di conquistare il mondo?

Ne incontrerà fin troppi, di suoi simili, edificatori più o meno consapevoli dell'antisemitismo moderno. Da Maurice Joly a Hermann Goedsche, fino al celebre Edouard Drumont, passando per il socialista Alphonse Toussenel. Simonino Simonini ci accompagna così nella conoscenza di un passaggio cruciale dell'Ottocento, quando l'ebreo smette di essere soltanto un deicida reietto, meritevole quindi della discriminazione che subisce da secoli; per diventare un essere temibile, vuoi come incarnazione della finanza cosmopolita, vuoi come rivoluzionario sovversivo.

Un ottimo saggio di Michele Batini (Il socialismo degli imbecilli, Bollati Boringhieri), di recente pubblicazione, ci aiuta ad apprezzare il rigore storico del romanzo di Eco, in cui questi figuri assumono vivida fisionomia. Grazie anche alle illustrazioni didascaliche che l'autore ha recuperato nella sua collezione privata. Si rubano l'un l'altro il materiale, razzolano nel fango e ne traggono guadagni, ben felici di incendiare anime sprovvedute.

Consegnando all'agente russo Golovinskij l'ultimo falso, che finirà dritto nei Protocolli dei Savi di Sion, Simonini si compiace di mettere in bocca a un rabbino la profezia devastante: «Determineremo una crisi economica universale con tutti i mezzi clandestini possibili coll'aiuto dell'oro, che è nelle nostre mani». Fomenta la prossima soluzione finale, dopo aver già compilato di suo pugno le lettere costate l'esilio all'Isola del Diavolo del capitano Alfred Dreyfus.

A cosa serve tutto questo? Glielo aveva spiegato di persona Rakowsky, un responsabile dell'Ochrana, cioè i servizi segreti dello zar: «La divina provvidenza ce li ha dati, usiamoli, perdio, e preghiamo perché ci sia sempre qualche ebreo da temere e da odiare».

Incapace di nutrire sentimenti diversi da «un ombroso amor di sé», Simonino Simonini, «maestro del riciclo», impersona un'ossessione che ad ogni pagina Eco ci aiuta a riconoscere attualissima. Magari rivolta ad altre minoranze, dopo lo sterminio degli ebrei, ma sempre la stessa.

Non stupisce che nella postilla al suo romanzo, un'opera destinata a diventare un classico, Umberto Eco si corregga: «Ripensandoci bene, anche Simonino Simonini, benché effetto di un collage, per cui gli sono state attribuite cose fatte in realtà da persone diverse, è in qualche modo esistito. Anzi, a dirla tutta, egli è ancora tra noi».

 

 

                                                                                                           VOTO  8

 

IO E TE di Niccolò Ammaniti

30.09.2011 09:04

Il dolore dell'adolescenza raccontato in maniera netta e precisa.

 

Ammaniti fa un piccolo capolavoro, fulmineo e affascinante. Si può leggere facilmente in un pomeriggio piovoso di quest’inizio d’inverno. Bellissima nella sua semplicità la storia dei due protagonisti, Lorenzo e la sorellastra Olivia, che nel momento della “malattia”, la dipendenza mortale da droga, appare ossuta e pallida come l’Olivia goffa di Braccio di Ferro. Roma - una cantina puzzolente come le ascelle del quattordicenne è il non luogo di incontro tra i due, che già avevano trascorso alcune vacanze insieme, da piccoli. Lui figlio di secondo letto, lei di primo, stesso padre che Olivia chiamerà più volte “tuo padre” nelle parole a valanga rivolte al pauroso compagno di sventura. Lui trova la salvezza, l’avvicinamento agli altri, agli estranei, al mondo intorno, a tutto ciò che era uno “schifo” come i drogati gettatisi sulle panchine ferrose e smagrite grazie alla volontà irrompente di aiutare lei. Una pulce davvero, come la madre definiva lo stesso piccolo Lorenzo. La settimana bianca di Lorenzo è la bugia detta alla madre per farle uno scherzo e anche per tranquillizzarla facendole credere di avere degli amici veri. Ma la paura che lo blocca quotidianamente “tra le braccia impietrite di un omone seduto” non gli consente di dire la verità e perciò finisce chiuso nella cantina dei suoi genitori. Un biglietto per salutarlo mentre sta dormendo e la promessa fatta di rivedersi, ma soprattutto di non bucarsi più… 12 gennaio 2010, dieci anni dopo, a Cividale del Friuli lui ha ventiquattro anni, lei trentatré. In una stanza di mattonelle bianche, sotto il lenzuolo, il corpo della bellissima giovane senza vita.

 

                                                                                                      VOTO  6.5


 

NORWEGIAN WOOD di Murakami Haruki

30.09.2011 09:00

 

Il pudore di vivere raccontato con sensibilità

 

La scrittura di Murakami è una scrittura dell'assenza almeno quanto lo è della presenza. Ciò che non viene detto è altrettanto importante di quanto viene raccontato. Sembra quasi ci sia del pudore nel rivelare troppo dei personaggi. E' uno stile che ricorda. non a caso, la tecnica pittorica giapponese dove vuoti e pieni collaborano nel definire le figure, dove il nulla non è del tutto negativo ma è la forza da cui tutto scaturisce.


Questa sorta di minimalismo estetico non va a scapito dell'intensità emotiva e dello spessore dei personaggi. Per dare un esempio di questa sorta di "realismo straniante" è sufficiente osservare come viene affrontato il tema del suicidio.

Laddove i romanzieri tendono generalmente a voler soddisfare ogni curiosità del lettore Murakami ci presenta suicidi di cui ci sfugge ogni motivazione. In questo senso il vuoto, il nulla che lascia la morte è ancora più grande perchè si tratta di una voragine incolmabile con la logica razionale. Chi vive rimane con un senso di sperdimento totale. Proprio come nella realtà, dove il suicidio rimane sempre al di là del motivo, in un limbo inafferrabile.

Ecco che quindi si coglie la dimensione duplice di questo vuoto: se da un lato è una realtà "positiva", la condizione di esistenza di persone e cose come nella pittura giapponese, dall'altro è anche forza negativa, di distruzione; morte che sta all'origine (il suicidio del primo fidanzato di Naoko) e alla fine come cancellazione del ricordo.

In effetti il tono emotivo del romanzo è definito dal tema del ricordo: tutta la storia è un rievocazione di Watanabe, rievocazione di un passato che deve esser trascritto affinché ne rimanga traccia.

Watanabe è terrorizzato dall'idea che con il passare del tempo il ricordo dell'amata Naoko divenga sempre più labile: il tempo è un roditore lento ma implacabile che pian piano rosicchia ogni realtà riportandola al nulla. La memoria è labile e destinata pian piano a svanire.

E’ sorprendente come Norwegian Wood sia nello stesso tempo un romanzo in cui gli avvenimenti sono molto ordinari ma anche attraversati da temi grandi, enormi, classici come la Morte, la Bellezza, il Tempo, la Gioventù. L'universo è un unità in cui grandi eventi e piccoli eventi si riverberano l'un l'altro per cui il simbolismo di Murakami non ha bisogno di voli pindarici, di allontanarsi dal realismo. Quello di Norwegian wood è un realismo in cui la realtà non è mai quella neutra, oggettiva della scienza, è una realtà esteticamente sempre bella perchè capace di rimandare oltre sè stessa, di essere osservata con uno sguardo unitario, capace di coglierne l'intima, sebbene crudele, armonia e corrispondenza.

Un tema ricorrente che tocca la psicologia dei personaggi è quello della normalità. I protagonisti di Norwegian Wood sono tutti preoccupati dall'idea di non essere normali, si chiedono cosa sia la normalità etc. C'è indubbiamente quel tratto tipico dell'adolescenza che consiste nel sentirsi diversi, estranei al mondo e nel volere dunque fuggire in un universo parallelo, in un limbo idilliaco chiaramente esplicitato dalla casa di cura di Naoko, Eden naturalistico sperduto tra le montagne, lontano anni luce dal caos di Tokio, dalla vita reale. Nello stesso tempo però questa fuga è chiaramente insostenibile, mortale. La vita comprende al suo interno dolore e morte e non ci sono alternative: o la si rifiuta sciogliendo questa contraddizione optando per la morte, o la si accetta nel suo intrecciarsi inestricabile di bene e male, vita e morte, essere e nulla.

Watanabe è sospeso, come ogni giovane che si affaccia nel mondo adulto, tra queste due opzioni rappresentate chiaramente dalle due donne del romanzo : la fragile, malata Naoko e la vitale, esuberante, pragmatica Midori.

Alla fine la scelta appare obbligata, talmente obbligata che Watanabe non dovrà nemmeno compierla, aiutato come sarà dal destino, e come in tutti i migliori romanzi di formazione, non sarà più lo stesso ma si troverà catapulato nel mondo adulto.

 

Scritto da:Mariagrazia Giordano

 

 

                                                                                                      VOTO  8